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Scherzi Delle Fiabe
Scherzi Delle Fiabe
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Scherzi Delle Fiabe

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“Giacomino, Giacomino! Come stai? Stai bene?”

“Si papà, sto bene”, rispose Giacomino dalla sua stanza, inframezzando la sua risposta con dei colpi di tosse.

“Cerca di aprire la finestra, o magari di accendere la luce, se riesci”, gli disse il suo papà che nel frattempo aveva provato invano ad aprire la porta della camera di Giacomino. O meglio, la porta si apriva, ma poi dietro a questa ne compariva un'altra chiusa, e poi un'altra, ed un'altra ancora sempre chiusa.

“ Stanotte sarò io il padrone assoluto di questa casa!” continuava ossessiva la caffettiera.

Anche la luce elettrica non funzionava, né i telefoni, e pure la porta di casa era bloccata. Per fortuna l'odore di caffè era diventato meno fastidioso, o forse i due ci avevano fato l'abitudine, e dava loro meno fastidio.

“Giacomino, rimettiti pure a dormire. Magari è solo un brutto sogno, e domani mattina torneremo ad essere noi i padroni della nostra casa”.

Tornati nei loro letti, l'odore di caffè non cessò, anche se la caffettiera interruppe e cambiò la sua solfa.

“ E adesso passiamo al secondo desiderio. Io non diventerò più servo di nessuno. Anzi, saranno in molti ad essere miei schiavi, e a non poter fare a meno di me anche per diverse volte al giorno.” Desiderio sprecato, pensò ascoltandolo il papà di Giacomino, che di persone che non riuscivano a iniziare la giornata senza uno o più caffè ne conosceva personalmente in abbondanza.

“ E infine il mio terzo e ultimo desiderio: che della storia di Salafino e della caffettiera magica, così ingiusta nei miei confronti e che a dire il vero sembra scopiazzata da un'altra storia simile e molto più famosa, da domani nessuno ricordi più nulla, ma proprio nulla. Insomma, che non ne rimanga traccia alcuna in tutto l'universo”.

Poi la strana voce tacque, il silenzio tornò a far compagnia al buio e grazie a loro il sonno, un po' alla volta, riprese il sopravvento.

Il mattino dopo, al risveglio, tutti i condòmini si stupirono di quel buon profumo di caffè così intenso, domandandosi invano da dove provenisse.

Giacomino raccontò a suo papà di aver fatto dei brutti sogni; ed egli, constatando di aver egli stesso dormito male, ne attribuì la colpa a ciò che avevano mangiato per cena.

Poi la giornata trascorse normalmente. Alla sera, quando fu il momento di addormentarsi leggendo una storia dal loro grosso libro, il papà di Giacomino si chiese:

“Avevamo lasciato a metà una storiella da ieri sera, forse?”

Ma il grosso libro, che avrebbe dovuto rimanere aperto dove la lettura si era interrotta, era aperto all'inizio di una nuova storia.

“Qui c'è: la storia del coniglio salterino. Ci leggiamo questa? Strano: eppure mi sembrava di ricordare qualcosa su una vecchia caffettiera.” Guardò nelle pagine vicine, e anche nell'indice, ma di una vecchia caffettiera non si parlava da nessuna parte. E certo non fece caso neanche al fatto che, verso la metà del libro, alcuni numeri di pagina risultavano saltati; ma poteva essere benissimo un errore di stampa.

E fu così che anche il terzo desiderio della caffettiera si avverò: in tutto l'universo non rimase traccia di quella storia. Quei pochi che la conoscevano se la dimenticarono, e nessuno se la ricordò più – tranne ovviamente io che la sto scrivendo, e voi pochi fortunati che ne state leggendo!

STORIA DI UN MANICHINO

“Ciao Gustavo. Gustavo!”

Gustavo, nella sua bottega di falegname artigiano, se ne stava concentrato in un angolo, seduto, con la sua tipica scoppoletta di traverso sulla pelata rosa. Era impegnatissimo attorno alla sua nuova creazione, un gruppo di santi in contemplazione della Madonna in cielo: o almeno così sembrava.

“Sveglia! Neanche il profumo dei funghi porcini riesce più a distrarti. E anche il tuo mitico fiuto per il buon vino ha fatto cilecca, stavolta.”

“Niente affatto.” Gustavo, quello vero, si affacciò con la pelata scoperta dalla porta del retrobottega. “Ho sentito i funghi appena sei entrato.”

“Che scherzi sono mai questi? Chi si sta dedicando alla tue sculture, e chi volevi imbrogliare? Una donna, scommetto.”

“E’ un manichino”, disse il visitatore dopo una breve pausa per osservare con maggiore attenzione. “Un maledetto manichino di legno. E magari è opera tua.”

“Sono io stesso, non vedi? Ha i miei stessi interessi, le mie stesse misure. Gli manca solo lo spirito, l’anima, la capacità di esprimersi e di muoversi. Anzi, per muoversi si muove bene quanto me, anche se non da solo.” Lo prese per un braccio e gli fece dare un saggio della sua mobilità e abilità. Prima un saluto militare; poi un saluto romano ed uno con pugno chiuso. Poi proseguì inaspettatamente con un espressivo repertorio di gesti napoletani.

“Non ha nemmeno quel mio problemino alla caviglia destra.”

Si trattava di uno di quei manichini snodati che usano i pittori per aiutarsi nel raffigurare le persone. Era a grandezza naturale.

“Adesso gli farò una compagna fedele, così almeno in questo sarà meglio di me. Poi ci manca solo l’intervento divino, l’alito vitale.”

Già. Quando arriva l’alito vitale? Perché alcune cose sono vive ed altre no? E cosa le fa vivere?

Queste domande non hanno risposte semplici, sempre che ne abbiano una. Però io so che alcuni oggetti sono capaci di suscitare, nelle persone che li guardano, tali e tante emozioni - in altre parole dei flussi vitali - per cui si può dire che siano un poco vivi essi stessi. Questo sosteneva il mio primo maestro nonché autore, Gustavo, il cui nome e cognome potete leggere qui incisi sul mio braccio destro. Questo lui intendeva per arte. E non per vantarmi, ma Gustavo era a detta di tutti un artista, più che un falegname.

Non lo potrete certo giudicare da un manichino come me, per quanto mi abbia costruito con tanta attenzione, studiando e provando tutte le mie articolazioni e i miei meccanismi; e sebbene mi abbia levigato e rifinito con cura perché fossi la sua immagine “corporea” ed “immortale” allo stesso tempo. Voleva che qualcosa di sé, ma di infimamente inferiore a sé, rimanesse dopo la sua morte, e dedicasse la sua umile esistenza all’arte, così come lui voleva dedicargliela.

No, l’artista non si riconosce da un manichino snodato, come oggigiorno ne fanno tanti in serie; né dagli astrusi contorcimenti mentali che può escogitare sui temi dell’arte e della vita. L’ho riconosciuto dal volto di tutti coloro che, entrando nel suo laboratorio, hanno ammirato le sue Crocifissioni, le sue Pietà e tante altre sculture sacre. L’ho riconosciuto dal suo disinteresse per il denaro, la fama e tante altre cose che interessano i più. L’ho riconosciuto dalla sua preoccupazione che ogni pezzo della sua vita, e quindi principalmente le sue opere, fossero collocate “al posto giusto”, quello per cui erano nate e per cui erano state pensate dalla Mente dell’Universo.

Vi posso dire che si era messo in testa che una certa sua scultura dovesse adornare il secondo altare della navata destra della nostra parrocchia, quello dedicato a Sant’Antonio. Non ci sono stati santi per fargli cambiare idea. Né un ricco signore di città, che gli aveva offerto parecchi soldi per avere quell’opera nella sua cappella privata; né il parroco stesso, che trovava l’altare principale più consono a tanta bellezza.


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