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Peccati Erotici Delle Italiane, Volume I
Peccati Erotici Delle Italiane, Volume I
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Peccati Erotici Delle Italiane, Volume I

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«Qui dovresti trovare qualcosa di adatto a te; la figlia di mio fratello lascia in giro un sacco di questi dischetti, Ha più o meno la tua età.»

«Uaho!» esclamò estasiata lei, scartabellando tra le custodie di plastica «ma questo è l’ultimo concerto del mio cantante preferito. Per favore, per favore…!» proseguì, cercando di fare la migliore interpretazione di “occhi da cerbiatto” mai eseguita, «Posso guardarlo?» Flora dovette fare uno sforzo, per non restare immobile e godersi quegli stupendi occhioni languidi. Sbrigativa replicò:

«Ah, cara mia, per me, te lo puoi anche sposare, non guardo mai “cosi” moderni.»

«Nicòle! Guarda che tra breve torniamo a casa!» Urlò Franca in direzione del salotto, dove sua figlia si era già impossessata del telecomando. Con la maestria tipica dei giovani, aveva già eseguito tutte le manovre per far partire il film, sul grande schermo piatto.

«Dobbiamo rientrare presto.» poi, a Flora, «Sai cara, non stavo nella pelle dalla voglia di rivederti, ma siamo appena arrivati… figurati che a casa ho ancora gli operai che montano i mobili, e lunedì dobbiamo già prendere servizio.» Intanto Flora, incurante del tornado che scatenava sempre Franca, continuò metodica le sue operazioni: servì un buon tè per entrambe sul tavolo della cucina e poi raggiunse Nicòle, con una tazza di cioccolata fumante e un piatto di biscotti fatti in casa, che sparirono presto dal vassoio.

Franca, intanto, era già in piedi, scattata come una molla:

«Dai, sono curiosa di vedere la tua casa!» disse, e intanto indicava segretamente, col mento, sua figlia che, ignara, si era già lasciata rapire dalle immagini. Flora comprese e, con la sua tazza tra le mani, fece strada all’amica verso le scale, che portavano al piano superiore. C’erano due camere e un bagno, molto comodo e spazioso.

«Ma è carinissima: che bella! E queste mattonelle: deliziose. Ti spiace se approfitto?»

«Ma scherzi? Fa come se fossi a casa tua.» rispose l’ospite guardando l’amica che, rapidamente, si abbassò pantaloni e collant, per urinare. «Vengono dall’Italia» continuò Flora, indicando le mattonelle. «Vietri sul Mare, per la precisione; i listoni sono decorati a mano, uno per uno. Piacciono tanto anche a me. Hanno i colori forti che si nascono nei posti in cui il sole è splendente.» Mentre Franca si ricomponeva dandosi una controllata davanti al grande specchio molato, incassato nell’intonaco e circondato da una cornice di ceramiche, Franca si fece più confidenziale nei toni, e raccontò rapidamente le sue ultime peripezie.

Erano in un momento di sbandamento totale. Il suo compagno, il padre di Nicòle, era stato trasferito in fretta dalla loro città. Lei, per fortuna, aveva trovato impiego, grazie all’aiuto di un collega. Un lavoro da cassiera, e spesso le sarebbe toccato svolgere il turno serale, ma non si lamentava, dopotutto l'importante era avere già un lavoro. Franca amava molto le apparenze e con pochi soldi non sapeva arrangiare… lui aveva altri due figli, frutto del primo matrimonio, ma erano grandi; i giovani si erano trasferiti per necessità, ma presto si sarebbero organizzati per andare a vivere a Parigi, dove avrebbero frequentato l'Università.

Flora la seguiva quieta, sorbendo il the e cercando di non perdersi, in quelle descrizioni frettolose. L’amica le aveva accennato qualcosa riguardo a un certo “aiuto” su cui contava; stava ad ascoltare attentamente, per capire dove sarebbe andata a parare. Il problema di Franca non era solo pratico: tutta la famiglia stava attraversando un momento di confusione e lei cercava di fare del suo meglio. I figli maggiori, irritati dal trasloco forzato, erano diventati intrattabili. La sua convivenza rischiava di sgretolarsi, a causa di una relazione del marito con una collega; infine, Franca era depressa, e cercava, a sua volta, qualcosa di diverso... Vecchi problemi irrisolti si erano insinuati nella famiglia e ora ne stavano minando i rapporti.

«La piccola è agitata, è nervosa» continuò Franca «e la nostra famiglia è talmente scombinata… Siamo incerti sulle scelte da compiere.» la fissò, «Ecco: vorrei affidarti Nicòle, per il doposcuola, affinché tu possa insegnarle la lingua e aiutarla a passare questo momento così complicato. Naturalmente sarai retribuita. È ovvio! Ti prego, non me la sento di affidarla a un’estranea in un paese che non conosce. Per lei sarebbe solo un ulteriore trauma e, francamente, vorrei evitarlo.»

Flora la interruppe, alzando decisa una mano:

«Alt, tesoro mio!» intervenne. «Non è una questione di soldi, figurati. Ma ciò che mi chiedi è una grande responsabilità. Cosa ti fa credere, poi, che le maioliche italiane e la cucina in veranda rappresentino il paradiso?» La squadrò quasi offesa. «Anch’io ho una mia vita, sai? Vivo da sola ma non vuol dire che non abbia qualcuno e, soprattutto, anch’io ho i miei problemi, purtroppo.» E il suo viso si ammantò di una delicata tristezza. I loro occhi s’incrociarono. Flora sorrise, rivedendo lo sguardo sparuto di Franca; sembrava lei la bambina confusa, adesso.

«Oh, insomma» disse infine risoluta. «Va bene! Facciamo una settimana di prova, ok?» Franca annuì, aveva la stessa aria di un cane che scodinzola.

«Però voglio sapere con precisione i giorni in cui la ragazza verrà da me. Posso riceverla dalle tre. Non prima. Sono impegnata col lavoro e altro… e la sera, a casa, per le venti!»

Più tardi, da sola nel lettone, Flora a occhi chiusi tornò con la mente alle emozioni che le aveva suscitato l’incontro con la giovane Nicòle. Le forme acerbe, i seni piccoli e, di certo, duri come il marmo...

A quel punto, i suoi pensieri si illanguidirono, immaginando il fiore acerbo, che la giovane custodiva. Avrebbe pagato per poterlo almeno ammirare, odorare, ma non poteva che restare un sogno. I suoi pensieri, però, diventavano sempre più lascivi, nonostante gli sforzi per distogliere la mente. Allora le immagini, che in quel momento creava con la fantasia, si confusero con i ricordi del passato. Il volto della giovane si sovrappose a quello della madre, quando era giovane e fresca. La rivide, mentre abbassava la testa, dai capelli fluenti, e si tuffava sul suo corpo, odoroso di puro piacere. La lingua di Franca la cercava, allora, insaziabile. Ricordò tutte le volte in cui aveva ricambiato quell’esasperante frugare, con la bocca, negli spazi segreti dell’altra. Il corpo, sognato, di Franca giovane, nell’eccitazione che si era impadronita di lei, si confondeva con quella di un’altra. Una donna sconosciuta dai contorni indefiniti, illuminata da una luce dietro le spalle, che ne occultava i lineamenti. Poco dopo, però, fresca come fosse rorida di rugiada, appariva l'innocente visione di Nicòle.

Ansando e grondando la donna raggiunse un piacere languido e intenso che, invece di appagarla, la turbò e la lasciò sul letto, piena di rinnovata sete.

3 - Nel meraviglioso mondo della fata di ferro

(Fiaba)

La Fata di Ferro aveva una casa che solo nel mondo delle fiabe era possibile immaginarsi. La giovane principessa si era presentata a lei, armata solo dell’innocenza, della voglia di vivere e delle sue paure. Aveva vissuto troppo tra gli echi misteriosi del bosco, cercando la forza per vincere le incertezze; aveva provato su di sé il peso opprimente dell’indifferenza. Ora, tutto questo, si contrapponeva all'ambiente fantastico che l’aspettava.

Da subito era stata accolta come la più bella delle principesse: le miscele di cacao più esclusive arrivavano da ogni parte del mondo per confezionare le sue cioccolate, mentre biscotti, marzapane e miele di giuggiole, non mancavano mai, all'ora della merenda.

La Fata di Ferro era intransigente: prima di tutto bisognava fare i compiti; ma poi, come d’incanto, quelle volavano in fretta. Era bello persino studiare se il premio era un sorriso affabile e complice della fata. La giovane faceva del suo meglio per collezionare buoni voti, per non interrompere quel connubio felice.

La Fata di Ferro si dimostrò la migliore delle amiche e la più fidata. Bellissima, grande, prosperosa; indossava sempre vestiti colorati e allegri: un vero e proprio inno alla gioia. Aveva mille abiti, tutti troppo corti per nascondere le sue grosse gambe burrose; tutti troppo stretti per contenere i seni gonfi o le natiche tonde.

Nella casa della Fata tutto era a disposizione e non c’era altro da fare che essere felici. La padrona di casa aiutava Alba nelle scelte senza prevaricare, condivideva le sue idee, la consigliava, e la ragazza non trovava da obiettare ai suoi pareri sussurrati, anzi: pendeva dalle sue labbra. La cosa incredibile era ricevere tutta la sua attenzione, incondizionatamente.

Nulla, in quella casa. contava più della principessa; per la Fata di Ferro il centro dell’universo, era Alba e tutto ciò che lei diceva era interessante, unico e prezioso.

Stava con piacere nella sua famiglia, ma intanto, non vedeva l’ora di correre via… il mondo delle fiabe l’attendeva e non vedeva l'ora di poter ritornare nella casa alla fine del sentiero, tra le buganvillee e gli oleandri, colorati e velenosi. Ogni giorno la principessina si sentiva più grande e più forte; ogni giorno correva verso nuove esperienze. E, celato nel suo cuore di piccola peccatrice, aveva un segreto, inconfessabile ma sublime. Una delle cose che l’attraevano era il corpo della fata; sarebbe rimasta ore a rimirarlo. Già quell’unico incantamento sarebbe bastato a rendere le visite improcrastinabili.

Lei era bellissima e, per la gioia di Alba, estremamente distratta. Quando sedevano al tavolino delle ghiottonerie, spesso accavallava le opulente gambe, senza curarsi del camice che si alzava e, salendo, a ogni movimento metteva in mostra le calze; sempre diverse, sempre di nuovi colori. Quelle che le piacevano di più erano le nere. Le calze nere parevano più piccole di una misura, la seta era tesa sulla pelle, creando appetitosi chiaroscuri; lo sguardo, ipnotizzato da quella visione, cercava il punto dove il nero deciso dell’orlo merlettato liberava, con uno sbuffo lievissimo, la carne rosea e chiara. Anche quando si adagiava su un basso pouf, sgranocchiando cannellini e Lacrime d’Amore, non era difficile che Alba riuscisse a carpire un’immagine delle sue mutandine, schiacciate tra le cosce.

La povera fata sedeva li, per non rubare spazio ad Alba a cui, da principessa quale era, era riservato il posto d’onore, sul divano.

A volte gironzolava per casa, alla ricerca di un granello di polvere “vigliacco”, o di uno dei tanti oggetti che, in quella casa fatata, avevano la terribile tendenza a cadere negli angoli più nascosti; da quando aveva scoperto che, per ritrovarli, la fata si metteva carponi, mostrandole il fondoschiena oppure le poppe gloriose, Alba, pur essendo di indole affettuosa e servizievole, non si offriva mai, come volontaria, per le ricerche. Preferiva godersi ciò che riusciva a vedere… E la fata aveva infinita pazienza e nulla chiedeva alla sua preziosa ospite.

Per fortuna, tutti i rossori e le vampate peccaminose della ragazza passavano inosservati, tant’è che una volta, fattasi coraggio, Alba, dal gabinetto, chiamò la sua madrina con una scusa e si fece trovare seduta sul vaso, con le sottili gambe dischiuse. Anche allora la fata non disse niente e nulla notò, chiusa in una “casta” indifferenza. Al contrario, la principessa per la vergogna sopravvenuta dopo l’eccitazione, cercò una scusa frettolosa per tornarsene a casa e, per alcuni giorni non si fece più sentire.

Al terzo giorno fu la fata a chiamare e tutto riprese come prima.

4 – L’istitutrice: fascino e polso fermo

(Realtà)

Flora credeva di impazzire, tanto la situazione era divenuta insostenibile. Nonostante le promesse fatte a se stessa e alla madre di Nicòle, la presenza della ragazza era diventata troppo intrigante, eppure opprimente per lei. Il piacere che provava, a sentirsi osservata di nascosto da quella piccola troia, le rimescolava il sangue nelle vene e, appena la vedeva o la pensava, si ritrovava eccitata. Dal primo istante in cui Nicòle giungeva a casa, la sua parte più recondita iniziava a sbavare piacere; desiderava l’orgasmo per ore, mentre le sue guance avvampavano e sudava tra i seni. La voleva! E, naturalmente, alla fine restava frustrata dal “nulla di fatto” che, essa stessa, si era imposta solennemente. Avrebbe voluto sfogare su quel corpo delicato l’infinito desiderio.

Il primo giorno che Nicòle disertò le lezioni, Flora respirò e, dopo settimane di stress, le sembrò di riprendere il controllo della sua vita e della sua casa. Era diventata una piccola despota; una vera canaglia, quella sua principessa! Appena scoprì di poter comandare, iniziò a tiranneggiarla… (che meravigliosa sensazione)

Il secondo giorno s’immalinconì. Le mancava. Voleva essere maltrattata ancora da quell’impertinente spiona. Le mancavano i suoi occhioni che le fissavano le cosce… E sì che Nicòle aveva davvero esagerato: farsi trovare nuda, sul gabinetto, ancora bagnata.

Pensieri deliziosi l’avevano attraversata, come correnti galvaniche scintillanti; ma doveva comportarsi da adulta, responsabile. Doveva resistere!

Quella sera si decise e chiamò un suo amico, per dare sfogo al vulcano della libidine, ma l'uomo era già impegnato; il fatto che lui non potesse raggiungerla la rese ancora più furiosa.

Si frugò nell’intimità, meccanicamente, sul letto, ma il piacere la rese ancora più eccitata e incapace di vincere il desiderio di Nicòle. La sera del terzo giorno la fece finita: telefonò.

«Eppure ero certa che ti avesse avvisato» rispose Franca, perplessa «i giovani di oggi non hanno più nessun rispetto.»

«No, lasciala stare, sono ragazzi, magari qui da me si annoia. Purtroppo non ho vicini con ragazzi della sua età. La capisco poverina.» la giustificò Flora.

«Aspetta adesso la chiamo, vediamo come si sente.» Poi Flora, trepidante e impacciata, udì le voci lontane di Nicòle e della madre:

«Ma che ti salta in mente? Perché non hai avvertito Flora che stavi male?»

«Uffa, ma io non stavo bene, pensavo che glielo avessi detto tu.»

«Sei una gran maleducata. Adesso vai al telefono e scusati…» Seguirono altre parole che non fu in grado di sentire. Dopo poco arrivò Nicòle:

«Scusa!» esordì.

«E di che cosa, tesoro mio? Mi dispiace se sei stata poco bene» disse raggiante Flora «ma adesso come va?»

«Sto bene» continuò Nicòle, lievemente laconica, poi si sentì confabulare.

«Dice mamma: se non disturbo, posso continuare a venire da te?»

Flora non seppe dissimulare la gioia che le procurarono quelle parole, così con la voce rotta dalla trepidazione, rispose:

«Lo sai, Nicòle, ormai questa è casa tua. Devi decidere tu, se vuoi… che ci vediamo ancora.»

«Sì. Voglio venirci ancora» disse la giovane.

Il giorno dopo, quando entrò nella casa, un profumo fragrante di torta di mele e cannella la pervase. Flora le andò incontro e si abbracciarono senza parlare. Da allora però, non si sedette più sul pouf, ma sul divano, di fianco a Nicòle.

5 - Incantesimo perverso

(Fiaba)

Ormai il ghiaccio era rotto e la Fata di Ferro non teneva più solo per sé i suoi segreti. Anzi, burrosa e languida, aveva deciso di darsi alla principessa Alba, anima e, se possibile, pure corpo.

Ad Alba non sembrava vero: il pomeriggio, dopo i compiti, facevano una merendina e chiacchieravano come due amiche del cuore. E visto che Alba non era mai stata così brava e volenterosa, nello studio, alla fine, arrivava il premio. Il premio era rappresentato dalla confidenza e dall'intimità.

La fata, rassegnata, le si donava completamente, affinché soddisfacesse la sua lussuria e i suoi sentimenti lascivi, di giovane curiosa e impertinente. Allora la screanzata si sedeva accanto a lei.

Spesso si servivano di un piccolo plaid con la fantasia scozzese, in quei casi Alba gioiva ancora di più. Guardavano la televisione o Flora leggeva qualcosa, nelle lunghe serate invernali; si piazzava sul divano e seguiva con finta attenzione qualsiasi programma, pur di starle vicino.

Le loro gambe, celate sotto la coperta, iniziavano a strusciarsi, il suono del tessuto che frusciava eccitava entrambe. Ad Alba non mancava mai la scusa adatta: ora per lo spasso, ora per la paura, ogni pretesto era buono per stringersi alla Fata di Ferro. Allora, specialmente se protette dal plaid di lana, le piccole dita sottili cominciavano a frugare. La ragazza abbracciava la donna in cerca di protezione e ne esplorava ogni rotondità, ogni curva. Vagava sul cotone del camice, a volte perdendosi tra roselline sul fondo nero, altre, cogliendo le margherite della vestaglia lilla; e più la Fata taceva, più le mani si prendevano confidenze.

Quando cominciava, voleva sfiorare con delicatezza e fingendo poco interesse: carezze distratte, occasionali, come se nascessero spontanee e senza scopo. Ma poi l’eccitazione aumentava; i movimenti diventavano sempre più rabbiosi, sconnessi, convulsi. Quelle mani “possedevano”, letteralmente, il corpo della grossa fata.

Alba le toccava i fianchi abbondanti, poi strisciava serpeggiando fino alla pancia di lei, che era generosa e morbida, allora, di piatto, si infilava sotto il cotone e carezzava l’inguine. Poi tornava su, cercava le mammelle e tirava, e premeva, e giocava con il seno abbondante. I capezzoli si rilevavano al tatto, gonfi e costipati sotto la veste e pressati, nel reggipetto matronale.

Poi le dita esploravano il collo, la nuca, titillavano i lobi… e la fata moriva lentamente di languore. Il cuore impazziva e piccole gocce le imperlavano la fronte.

Il plaid era complice di Alba…

La ragazza iniziava col lamentarsi di aver caldo e, da sotto la coltre, faceva scivolare via la gonna dalle gambe di gazzella restando solo in mutandine e calzettoni. Adesso, la carne nuda cercava di nuovo il contatto, scostava il cotone, scivolava sulla seta e trovava, infine, la pelle dell’altra. E quando la carne s’incontrava, per entrambe era il tripudio.

Quel desiderio era tanto più grande quanto più era proibito e sofferto. Il silenzio, falso, della fata, quella sua impossibile indifferenza, faceva fremere la giovane principessa; a ogni istante temeva di essere scoperta e quindi allontanata, scacciata. Sapeva che stava approfittando di tutte le magie della Fata di Ferro, ma non riusciva a trattenersi! Doveva bere a quella fonte vietata.

Ogni sera, tornando a casa, si riprometteva di resistere a quella sete ma, il pomeriggio successivo, i buoni propositi capitolavano e lei si rituffava in quel corpo: arrendevole, morbido, materno.

Che gioie provava, e quanto si umettava il suo fiore nascosto! Spesso si ritrovava con le mutandine bagnate sì, ma dal fuoco della lussuria.

6 – Perdersi, poi cercarsi più di prima

(Realtà)

Il pomeriggio era freddo, nonostante la primavera fosse già arrivata.

Nicòle giunse con guance e ginocchia arrossate, e il piccolo naso ghiacciato. La sua figura slanciata emerse superba, tra i giochi di luce dei cristalli della porta. Flora rimase abbagliata, ancora una volta, dalla sua leggiadria. Era mancata per una settimana e la donna si era resa conto di quanto l’amasse già.

Padrona del mondo, Nicòle si spogliò del soprabito e della sciarpa bianca. Poi tolse il cappellino di cotone, lasciando scorrere sulle spalle i capelli d’oro. Inondò la casa di sorrisi e di parole senza importanza.

“Niente scuola per domani, niente compiti oggi!” Stabilì, spadroneggiando, che era il pomeriggio adatto per guardare “Il dottor Zivago”. Flora avrebbe voluto piangere, ma non lo fece, né si oppose alla richiesta, l’attendeva da troppo, per non esaudire i desideri della sua piccola “tiranna”. Iniziò a sentire le farfalle nello stomaco, mentre con la mente pregustava le carezze che tanto bramava. Le loro mani avrebbero danzato con le dita, intrecciandosi e respingendosi, come ballerine su un palco. Non riusciva a porre freno al suo desiderio, né a porre un vero freno a quello della ragazza.

Ma da troppo erano in stallo: non poteva continuare così. Flora decise di rompere gli indugi e di giocare le sue carte:

«Vai a fare pipì allora, altrimenti dopo ti seccherà alzarti» le sorrise. «Io intanto vado a preparare il the.»

«Sì, Badrona!» la prese in giro Nicòle.

Mentre Flora armeggiava in cucina, la giovane che si attardava nel bagno gridò:

«Ho una sorpresa, la vuoi vedere?»

«Oh, ohhh!» rilanciò Flora, «le “tue” sorprese non promettono niente di buono al mio destino…»

«E invece sì, guardami!» uscì dal bagno e si mise in mostra. Aveva indosso solo lo spesso maglione a coste. Sotto, invece dei calzettoni, indossava collant neri e velati. Flora ebbe un sobbalzo, nonostante la ragazza tenesse le cosce serrate, era evidente che non indossava le mutandine: un ciuffetto biondo e delicato, schiariva le calze, proprio sull’inguine virginale.

«E guarda, ora» disse Nicòle, con un sorriso che sapeva di giovanile impertinenza. Divaricò i piedi allargando le gambe. Aveva squarciato grossolanamente i collant con le dita, proprio tra le gambe, così le calze facevano da cornice a quello spettacolo mozzafiato.

«È una mia invenzione! Ti piace?» Non attese risposta; tanto sapeva che non sarebbe arrivata. La bocca di Flora si era spalancata per lo stupore e adesso non riusciva a proferire una sola parola.

«Queste mi terranno più calda, starò comodissima. E senza le mutandine, posso fare la pipì facilmente.» Alzò lo sguardo e fissò Flora con aria spavalda, gli occhi di cerbiatta la sfidarono senza pudore. Flora riuscì a distrarre la sua attenzione da quello spettacolo. Col respiro affannoso finse di borbottare qualcosa sui giovani, voltandosi per nascondere il rossore delle gote. Si dedicò tenacemente a filtrare il the e lo versò caldo nelle tazze preferite, poi senza una parola si ritirò di sopra, in camera.

Nicòle si era già sistemata sul divano, accogliente come un'alcova; aveva osato, ma in cuor suo si augurava di non avere esagerato.

Il film era appena iniziato. Dalle scale potè spiare Flora mentre tornava in salotto. Si era cambiata: ora indossava un lungo camicione, stretto sui seni, una specie di stile impero, sotto, infatti, si svasava leggermente e davanti era chiuso coi bottoni. La ragazza notò che non aveva più le calze. “Avrà caldo” pensò tra sé, e provò piacere a quella vista.

7 - La fata senza veli

(Fiaba)

Quel pomeriggio la Fata di Ferro aveva indossato una veste leggera con i bottoni davanti. Come sempre silenziosa, sedette accanto ad Alba. Dopo pochi minuti la principessa si raggomitolò al suo fianco; iniziò ad assaporare l'atmosfera voluttuosa che si creava tra loro. Chiuse gli occhi e aspirò il profumo fresco sulla sua carne delicata. Tirò sul divano le due gambe fasciate dai collant, mentre abbandonava la testa sul braccio della fata. Pochi istanti dopo, con la mano libera, scivolò dalle sue gambe sottili a quelle deliziosamente piene della donna matura. Spingendo sul cotone leggero, sentì che scorreva facilmente sulla pelle nuda di quelle cosce. La principessa ebbe uno dei mille brividi che ormai facevano parte della sua precoce sessualità.

Curiosa, col cuore che batteva, la mano trasgressiva si fece strada verso l’alto; scavalcò la pancia, si soffermò sull’ombelico teso, per poi risalire il lieve pendio che arrancava sotto i seni generosi. Avrebbe voluto lanciare un piccolo grido di vittoria, ma si trattenne mordendosi le labbra: si era appena resa conto che la donna aveva tolto anche il reggiseno. Le sue poppe, deliziosamente calde, poggiavano sul corpetto della vestaglia ed erano trattenute solo dai bottoni. Alba incontrò la rugiada appetitosa che si stava formando sotto i due grossi seni. La voglia divenne violenta.

La fata taceva, come se nulla stesse accadendo; il volto da Sfinge, guardava, senza vedere, in direzione della televisione; le labbra serrate enigmaticamente; non un briciolo di emozione faceva capolino sul suo viso. I suoi occhi penetranti evitavano accuratamente di incrociare quelli di Alba. Eppure, per la prima volta… la fata, sotto la veste, era tutta nuda, ma sembrava del tutto indifferente alle passioni contrastanti che agitavano la giovanetta.

Alba voleva continuare a toccare la pelle nuda ma temeva di sembrare troppo insistente. Alla fine si fece coraggio: doveva tentare. Non poteva restare per sempre nell’insicurezza e col petto in fiamme. Le dita sottili acquisirono coraggio e, come artificieri che manipolano una bomba inesplosa, uno dopo l’altro liberarono i tre bottoni, che serravano il decolleté della Fata di Ferro. I seni tracimarono, come una piena dalla diga, privi ormai di ogni difesa, si allargavano mollemente, allontanandosi l’uno dall’altro. Nel mezzo apparve, allora, come una vallata odorosa, rorida di delicato sudore.

Come provenisse dal sottobosco nel mese di agosto, uno sbuffo di profumo di femmina invase le nari della principessa impertinente. Alba era insicura nel leggere i segnali del piacere, ma di certo non evitò di cercare la voluttà tra quelle due montagne calde e tenere. Sulla sommità, sorgendo come templi tibetani, i seni, turgidi e torniti, con la punta già grossa come un dito, svettavano, allettandola a osare.

Il contatto della pelle nuda con i luoghi più intimi della sua “madrina” resero la principessa euforica, come ubriaca. Abbandonò ogni freno inibitore e si avventò con le mani sul petto e sulla pancia che li sosteneva, con le mani bramose di toccare.

Il silenzio indifferente e annoiato, che spesso era stato causa di dolori d’amore nella giovane principessa, ora, era benedetto. L’eccitazione la rendeva temeraria… e, miracolosamente, la donna, immobile, si lasciava sballottare, tastare, annusare, senza dare segni, né di fastidio, né di apprezzamento; buon per Alba, che aveva perso la testa. Adesso era quasi pronta al passo decisivo; la vicinanza del viso e della bocca a quel seno generoso, la invitava a fare una cosa che ancora non aveva osato mai: prenderlo tra le labbra con tutta la passione. Quel primo bacio, erotico, estremo, avrebbe segnato la fine di ogni compromesso…

La voce della Fata arrivò, pacata ma decisa, del tutto inaspettata, come uno schiaffo sulle mani. La matrona uscì all’improvviso dal suo torpore sibillino. Risorse e, voltandosi verso Alba, la fissò con gli occhi scuri, ardenti come braci:

«Ma ti piace veramente quello che stai facendo?»

Alba saltò indietro; ritirò la mano. S’irrigidì come fosse stata colpita da un ceffone.