banner banner banner
Lo Senti Il Mio Cuore?
Lo Senti Il Mio Cuore?
Оценить:
Рейтинг: 0

Полная версия:

Lo Senti Il Mio Cuore?

скачать книгу бесплатно

Lo Senti Il Mio Cuore?
Andrea Calo'

Riuscirai a superare persino quei giorni in cui ti sentirai morire, quelli in cui ti ritroverai dannatamente sola e fragile. Perché sai, è questo che si fa. Si va avanti, nonostante tutto.

E non importa alla fine chi sei stata o chi sarai. Ciò che importa è andare avanti, assaporando il gusto dolce e amaro delle emozioni, quelle che ogni giorno ci regala lo splendido viaggio che gli esseri umani chiamano ”vita”.

Fin dalla tenera età la vita di Melanie è segnata dalla violenza. La sua esistenza è il totale annullamento dell'essere donna e di ogni traccia della propria personalità. Ma come in una bella favola, ormai certa di aver toccato il fondo, arriva per lei l'amicizia sincera di Cindy accompagnata da un amore vero per un uomo, un vecchio amico. E allora tutto cambia, come d'incanto. Tutto rinasce e può sbocciare la vita nella sua primavera, quella mai vissuta.

Andrea Calò

LO SENTI IL MIO CUORE?

ROMANZO

Prima Edizione – Maggio 2014

Questo libro è un’opera verosimile basata su una storia vera. I nomi dei personaggi, i luoghi e alcune situazioni sono stati modificati dall’autore a garanzia della privacy delle persone. Qualsiasi altra analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

© Copyright 2014 – Andrea Calò

ISBN: 9788873042891

@ e-mail: andrea.calo_ac@libero.it

In copertina: Nicoleta Nuca (su gentile concessione)

Edizioni TEKTIME

A mia moglie Sonia, l’amore della mia vita.

Per sempre.

1

Quando anche l’ultimo degli amici lasciò la nostra casa dopo avermi salutata, chiusi la porta a chiave. Ero rimasta sola, e non era solo una solitudine fisica. Sentivo freddo e anche dopo essermi coperta con un maglione di lana la situazione non migliorava. Il mio cuore batteva lento nel petto. Un profondo battito sordo e poi un lungo silenzio che preannunciava la morte, disillusa dal tardivo battito successivo. Ero viva. Sentivo freddo, quindi ero viva. Il sole di maggio aveva spazzato via le gelide giornate invernali già da parecchi giorni, perché su di me non stava funzionando? Guardai fuori dalla finestra. I ciliegi erano già imbiancati da fiori che presto sarebbero divenuti frutti rossi e dolci. Alcuni avevano già ceduto il loro posto, staccandosi dai rami per posarsi a terra o sulle spalle dei passanti, come neve di cotone. Erano fiori senza un futuro o frutti senza un passato, proprio come me. Ma questi fiori colti dalla morte portata da un soffio di vento uccidevano il grigiore del cemento e dell’asfalto, donandogli vita. Io invece mi sarei lasciata solamente marcire sotto terra un giorno, immobilizzata per l’eternità e costretta a guardare le margherite crescere dalla parte delle radici. Oppure mi sarei fatta bruciare e poi riporre in un’urna fredda simile a quella di mio marito, per vedere se esiste davvero l’Inferno e per scoprire l’effetto che fa bruciarci dentro. Seppellita o bruciata, dovevo ancora decidere il mio modo per essere dimenticata. Dimenticata dai miei figli, dal mondo intero e da me stessa. Certa che nulla si sarebbe fermato dopo la mia partenza verso l’eternità. Mi voltai per guardare l’urna, non l’avevo ancora fatto dopo la fine della funzione. Era di colore grigio, un grigio scuro come quel “fumo di Londra” che lui tanto amava e che sceglieva ogni volta che andavamo a comprare un vestito. Pressato dalla mia insistenza, mi compiaceva provando vestiti di altri colori, un po’ più vivaci. Ma alla fine del gioco la merce scelta e deposta sul banco della cassa era sempre la stessa. “Dovrò sentirmici bene dentro, finché lo indosserò”, mi diceva ogni volta. E poi rivolgendosi alla cassiera e provocandole non poco imbarazzo le chiedeva “Signorina, lei cosa ne pensa?”. Ed ecco qui la mia scelta, ancora una volta dettata dalla sua ingombrante seppur impercettibile presenza. Io come la cassiera ho confermato che quell’abito grigio sarebbe stato adatto a lui. Ho pagato in prima persona e sono scappata via con la merce pesante stretta tra le mie mani stanche. Un’urna di colore grigio “fumo di Londra”, il suo ultimo abito, quello che lui non si sarebbe mai più tolto per l’eternità. Mi avvicinai e la accarezzai. La sollevai e sulle mie braccia riuscivo a pesare la sua vita. Sentivo il freddo pungente del metallo guadagnarsi spazio sotto il tocco della mia mano stanca. Mi faceva percepire un senso di calore etereo nel braccio, un calore che scalava il mio corpo avvolgendolo tutto, mi accelerava il cuore. Non capivo se fosse più un fastidio o puro benessere. Vivevo di più, vivevo meglio. Comunque vivevo! Staccata la mano, ecco comparire nuovamente il vuoto che bussava alla mia porta, la mano tornava a scaldarsi, il braccio a raffreddarsi, il cuore a rallentare. Riprendevo lentamente la mia corsa verso la morte. Ma io sapevo che non si sarebbe fermato subito, la sofferenza dettata da quell’abbandono non mi sarebbe stata scontata perché la vita non offre mai “saldi di fine stagione”. Il cerchio si richiudeva su sé stesso e il ciclo ricominciava da capo. Versai dell’acqua nel bollitore e lo accesi. Rimasi per qualche minuto immobile, con gli occhi fissi sulla spia luminosa rossa in attesa che si spegnesse da sola. Anche lei moriva a modo suo, come tutto, come tutti, come sempre. Ma lei poteva ritornare a vivere, poteva rinascere se spinta dall’esterno con una scossa di vita. Proprio com’era successo a me quasi cinquanta anni prima. Con quegli stessi occhi avevo guardato il mio compagno durante gli ultimi istanti della sua vita, i miei occhi immobili che fissavano i suoi, spalancati e altrettanto immobili ma ancora capaci di brillare di luce propria, come la spia del bollitore, con il silenzio fastidioso che solo la vita che lascia il corpo sa creare. Un trambusto creato da disordinati pensieri, immagini di felicità che si ergevano da un mare di lacrime. E sotto il piatto che conteneva la mia felicità c’era lui, l’uomo che usciva dall’acqua come un dio greco, imponente nella sua semplicità, terrificante nella sua dolcezza. Ed io, seduta su quel piatto banchettavo con la mia felicità fino a sentirmi sazia, più mangiavo e più mi sentivo leggera, abile nello spiccare un volo con un semplice balzo.

Versai qualche foglia di tè verde in un bicchiere e lo arricchii con qualche foglia di menta che avevo congelato, perché si conservasse fresca e profumata. Il suo fresco profumo m’invase, portandomi via per un istante dal puzzo di una vita che sarebbe marcita totalmente in poco tempo. La mia decomposizione era già in corso da ore, giorni, settimane. Da quando lui si ammalò. Non so da quanto tempo e per quanto tempo ancora sarei stata me stessa o colei che gli altri volevano che io fossi. Poi mi voltai di scatto cercando anche l’altro bicchiere, quello che avrebbe usato lui, quello color panna con il suo nome inciso sopra in eleganti caratteri corsivi di colore rosso. Amava il tè alla menta, ne abusava. Era la sua droga quotidiana, non poteva farne a meno. Ricordo che una volta ci dimenticammo di fare la scorta. Era un freddo pomeriggio, nonostante la primavera fosse già arrivata da molto tempo. Pioveva. Arrivate le cinque del pomeriggio e non trovato il tè in casa si arrabbiò parecchio. Non con me, mi disse subito che io non avevo colpe per la sua stupidità. Prese il cappotto, s’infilò le scarpe e scomparve dietro la porta come un fuggiasco inseguito dalla polizia. Io sorrisi, amandolo nella sua goffaggine, per il suo attaccamento alle cose futili. Rientrò dopo un’ora buona, imprecando contro i gestori del supermercato perché avevano finito le confezioni di tè sfuso in foglie della marca che piaceva a lui e non le avrebbero più ordinate. Diceva sempre che nemmeno i negozi erano più quelli di una volta, che sarebbe stato meglio fornire bene gli scaffali dei supermercati piuttosto che spendere soldi per viaggiare nello spazio. Avrebbe dovuto cercare un’altra soluzione, quel giorno si dovette accontentare di tè già pronto in filtri e di marca scadente. Poi mi guardò, si avvicinò a me con il suo sorriso e prendendomi le mani mi consegnò una rosa rossa. “Questa non l’ho presa al supermercato, non avrei mai portato una rosa confezionata alla donna che amo. E’ la prima rosa spuntata nel roseto del giardino nel quale ci siamo incontrati, ricordi? Erano giorni che la curavo e che immaginavo il momento in cui te l’avrei data. Il tè era soltanto un pretesto, posso anche farne a meno. Ma del tuo amore no, a quello non posso davvero rinunciare!”. Lo baciai e lui rimase immobile come spesso faceva, diceva che gli piaceva sentire il sapore delle mie labbra e se anche lui mi avesse baciato avrebbe rovinato il gusto. E allora io lo baciavo ancora, ancora e ancora mentre lui, in silenzio, mi amava sempre di più. Quella sera facemmo l’amore. Fu diverso dal solito, fu ancora più intenso, più profondo e piccante. La rosa rossa ci scrutava dal vaso nel quale l’avevo riposta, ci proteggeva come una guardia della Regina, immobile e composta, più viva che mai seppur immobile. Provai un brivido diverso quando lui si liberò dentro di me, sapevo che qualcosa di grande, di potente e incomprensibile per l’uomo aveva preso vita nel mio corpo in quell’istante. Non era paura, non era dolore. Era il frutto dell’amore che lasciava un corpo e si congiungeva con un altro, catturato da un’anima vagante a noi assegnata e da essa guidato fino al completo compimento del suo tragitto impervio. Il primo viaggio. Il miracolo della vita era avvenuto dentro di me, per la prima volta. Lui mi guardò con i suoi occhi infuocati d’amore e di passione, cercando i miei occhi dai quali aveva cominciato a sgorgare una lacrima. In quella lacrima e nei miei occhi lui vide riflesso il vaso con la rosa. Si fermò, mi baciò, mi sorrise. Posò il suo dito indice sul mio naso, strappandomi un sorriso come sempre e mi disse “Si chiamerà Rose. Ti piace il nome Rose per una bambina?”. Rose arrivò nove mesi dopo, come un regalo caduto dal cielo. Era così gracile, indifesa e semplice. Mi sorrideva sempre, mi sorrideva con gli stessi occhi di suo padre.

Mia figlia Rose con suo marito Mike e i miei due nipotini Claire e Tommy sarebbero venuti a casa mia per cena. “Casa mia”. Mi meravigliavo di quanto fosse semplice adattarsi alle cose. Tuttavia pur girando in tondo come un clown colpito da uno schiaffo in pieno viso, non riuscivo a scorgere nessun altro pronto a parlarmi, a chiamarmi, a ricordarmi ancora una volta quanto io fossi bella per lui. Rose mi aveva lasciata per qualche ora subito dopo la cerimonia, doveva sbrigare alcune faccende e saldare il conto per il funerale. Io avrei dovuto dare retta ai restanti parenti e amici, ognuno dei quali voleva ricordarmi con le sue parole quanto mio marito fosse stato importante per me e quanto io lo fossi per lui. Parlavano, intervallando parole a freddi abbracci di convenienza che non sapevano di nulla, non esprimevano calore, non emanavano odore se non quello pungente della naftalina che aveva protetto i loro abiti fino a quel giorno e tirati fuori ancora una volta per l’occasione. Molto spesso le persone si rincontrano solo in occasione di matrimoni e funerali, per molti di loro fu davvero così. Quella sera stessa sarebbero stati riposti nelle loro custodie plastificate, cosparsi nuovamente di puzzolenti palline di naftalina insieme ai fazzoletti ancora ripiegati e sui quali nessuno aveva versato una lacrima sincera. L’esercito del commiato a turno mi scuoteva, mi percuoteva l’anima con parole studiate e acuminate come gli aghi sul guscio di un riccio di castagno, attendendo di vedere una lacrima sgorgare dai miei occhi, come estrema esternazione del mio dolore, della mia vulnerabilità. Solo allora si sentivano appagati, potevo percepire il loro ego esclamare “Era ora! Finalmente ce l’ho fatta a strapparle una lacrima!”. E io li accontentavo, nella speranza di far placare anche il mio dolore, la mia sofferenza, l’amaro sapore della solitudine che mi aspettava. Fotografavano quella lacrima, rubandola dai miei occhi per portarsela via come ricordo, come un trofeo vinto nella più estenuante delle battaglie. Per la loro vittoria avevano ricevuto in premio la mia sconfitta e mi toglievano la vita ogni volta che, dopo tutto questo, mi dicevano “Su dai, ora non piangere. La vita continua”.

Il tramonto stava arrivando. Lui passava sempre qualche minuto in giardino, seguendo il sole nell’ultimo tratto del suo viaggio verso la notte. In quei momenti io raramente uscivo fuori con lui, preferivo starmene quieta in casa ad osservarlo dalla finestra con la tenda lievemente scostata, quanto bastava per vederlo ma senza correre il rischio di essere scoperta. Se m’avesse visto mi avrebbe sicuramente invitato ad uscire con lui ma io preferivo osservare a pieni occhi la mia cartolina monocromatica, perché con lui dentro mi sembrava molto più bella. Scorgevo la sua sagoma nera che si confondeva con il paesaggio, il nuovo tronco entrato a far parte della mia vita per poi diventare prima albero, poi legno stagionato, infine polvere chiusa in un freddo vaso di metallo grigio. Ma io allora vedevo solo il mio albero e la prospettiva che mi regalava la fortunata posizione di quella finestra me lo rendeva più alto e possente di tutto il resto. Se ne restava lì fermo, immobile, lo sguardo perso dentro il rosso infuocato del cielo che non voleva ancora arrendersi alla notte che incessantemente bussava alla sua porta, chiedendogli di farsi da parte. “Che bella è la vita!”, vibravano le parole che cavalcavano la mia anima, tracciando una invisibile linea di brividi lungo la schiena che non riuscivo a seguire senza far scuotere il mio corpo. “Il tramonto come atto finale del giorno non è altro che l’inizio di una nuova alba. Quella che verrà, sempre se ce la saremo meritata”. Avevamo anche assistito all’alba lui ed io. Capitava spesso nelle notti d’estate, quelle calde e soffocanti fatte di silenzi interrotti dai fastidiosi ronzii delle zanzare assetate di sangue, assetate di vita. Non ci pungevano ma non ci permettevano nemmeno di dormire bene. Quando ci trovavamo lì nel letto, entrambi svegli con gli occhi spalancati e le gambe tenute aperte per non sudare, il più delle volte occupavamo il tempo facendo l’amore. Ma un mattino mi sorprese. Tornato dalla toilette si avvicinò a me sussurrando al mio orecchio “Melanie, vuoi assistere alla nascita di una nuova vita oggi? Sarà un’esperienza nuova, ti piacerà!”. Io non capivo cosa intendesse dire. Avevo dato alla luce Rose un bel po’ di anni prima e avevo lavorato per anni come infermiera e assistente al parto in ospedale prima di fuggire via dalla città della mia infanzia. Perché mi chiedeva se volevo assistere ad un parto? Declinai l’invito, rispondendo che alla fine tutte le nascite sono uguali e quell’esperienza l’avevo già vissuta troppe volte, fino alla nausea. “Ma il sole nasce ogni giorno in modo diverso. Le nuvole nel cielo, quando ci sono, regalano sfumature rosa diverse e irripetibili. Sei certa di volerti perdere tutto questo? Potrebbe non tornare mai più, sai?”. Con le sue parole scomparve anche l’ultimo residuo di sonno e un istante dopo ci trovammo seduti sulla nostra panca in giardino, quella più bella, quella che regalava la migliore vista sul lago. Restammo così appoggiati l’una all’altro, avvolti dal silenzio mentre la magia della vita partoriva un nuovo giorno. Le zanzare erano rimaste tutte in casa, dee della notte che temevano l’arrivo della luce del nuovo giorno, così come Satana teme la luce di Dio. E il primo vagito del nuovo nato fu un debole raggio di luce che ebbe però la forza di arrivare fino a noi, rischiarando i nostri volti, riscaldando al meglio che poteva le nostre mani. Lo baciai, lui fermo per assaporare il gusto delle mie labbra ancora una volta. Non osai chiedergli che gusto avessero, lo capii da sola. Capii che erano speciali per lui, come lui lo era sempre stato per me. Speciale come il modo in cui lui mi aveva fatto accogliere quel nuovo giorno, il primo vagito della vita. Unico come il modo in cui era tornato ad abitare nella mia stessa esistenza, riempiendo la mia vita con la sua presenza.

Rose entrò in casa usando il suo mazzo di chiavi. Andava fiera di quel mazzetto di ferraglia che desiderava possedere fin da quando era piccola, quando mi diceva sempre che tutte le sue amichette ne avevano uno, che i loro genitori avevano deciso di darglieli perché si fidavano di loro. Non capiva quindi perché io fossi di parere totalmente contrario, non condivideva il motivo delle mie paure. Suo padre era invece accomodante come sempre, la maggior parte dei vizi che Rose aveva avuto portavano la sua inconfondibile firma. Nei momenti dell’esasperazione affermavo spesso con fastidio che se Rose un giorno si fosse persa, anche un turista di passaggio avrebbe capito subito di chi fosse figlia e ce l’avrebbe riportata. Rose era la sua copia al femminile. Aveva i suoi stessi occhi, il suo naso, la sua fronte allungata e candida, così come candidamente bianca, quasi pallida, era la sua pelle. Riuscivano a capirsi per mezzo di discorsi fatti di interminabili silenzi. Io spesso mi sentivo tagliata fuori e cominciavo a parlare con me stessa, per farmi compagnia. Al compimento del sedicesimo anno d’età decidemmo di accontentare Rose. Preparammo un mazzetto di chiavi e lo impacchettammo come se fosse stato un regalo. Lui prese un foglio di quella carta che lui stesso preparava e con il pennino ad inchiostro che usava per le occasioni speciali vi scrisse sopra “Per la mia piccolina che diventa donna”. Me lo porse perché io potessi leggerlo, forse attendeva il mio consenso ma so per certo che se anche gli avessi detto che per me non andava bene, lui non avrebbe cambiato nemmeno una delle parole che aveva scritto su quel biglietto. Toccai più volte quella carta durante un periodo della mia vita, vidi spesso le sue parole impresse su di essa con quella stessa calligrafia, l’inchiostro nero leggermente velato che a stento copriva le imperfezioni di quel supporto fatto in casa. Quando Rose aprì i suoi regali e trovò le chiavi pianse. Pianse al punto tale che cominciai a temere di aver fatto la cosa sbagliata. Avevamo confermato la nostra fiducia in lei e questo per Rose era una cosa davvero importante.

* * *

«Ciao mamma, siamo arrivati!».

«Ciao Rose, venite! Ciao Mike! Ciao angioletti miei!».

Mike e i miei nipoti mi abbracciarono, Rose mi baciò stringendomi forte a lei. Claire era triste e come Rose non riusciva a nascondere i suoi sentimenti. Tommy saltava come un canguro per la casa, per smaltire le energie in eccesso che aveva accumulato. Era un vero trambusto e in sua presenza ogni luogo prendeva vita.

«Claire, tesoro! Non devi essere triste. Dove hai nascosto il tuo bel sorriso?».

«Claire ha ricevuto una brutta notizia oggi», disse mia figlia Rose mentre le accarezzava teneramente la testa, «Oltre al funerale del nonno ha dovuto ingoiare anche il rospo di sentirsi lasciata da Morgan, il suo fidanzato».

«Morgan ti ha lasciata oggi?», le chiesi io fingendo una esagerata espressione di stupore.

«Si, quello stupido idiota! Mi ha lasciata con un messaggio sul telefono. Non ha avuto nemmeno il coraggio di parlarmi, di guardarmi in faccia quel codardo!».

«Oh, capisco! E che cosa dice quel messaggio?».

«Dice che mi lascia. Che cosa vuoi che dica?».

«Le parole sono molto importanti tesoro mio! Da quelle parole puoi capire se lui ha paura, se ha solo bisogno di un po’ di tempo, se c’è ancora speranza oppure se è davvero finita per sempre», replicai con la fierezza di una donna che aveva maturato una certa esperienza a riguardo.

Scocciata, Claire infilò una mano in tasca e recuperò il telefono. Schiacciò un po’ di tasti con una velocità impressionante, movimenti che a me sembravano del tutto casuali ma che per lei avevano un senso preciso. Poi, ritrovato il messaggio, me lo lesse.

«Allora, dice così: Ti prego di perdonarmi ma non penso che tra noi possa funzionare. Ti ho voluto tanto bene e tu hai voluto bene a me, questo lo so bene. Ma ora questo tempo è finito. Io ho fatto una scelta diversa, so che mi capirai e che mi accetterai anche per questo, per la mia debolezza e per la mia codardia. Non cercarmi più, io non ti cercherò. Buona vita Claire, addio. Questo è tutto!».

Richiuse il telefono e lo infilò nuovamente in tasca mentre con un dito asciugava una timida lacrima che si affacciava sui suoi splendidi occhi blu.

«E’ un ragazzo maturo, Claire. Le sue sono parole sincere e quindi dolorose da sentire, soprattutto quando il cuore non le vorrebbe mai sentir pronunciare dalla persona che si ama».

«Maturo o non maturo non è una cosa che mi riguarda più. Ha la mia età nonna e a quindici anni è concesso conservare un briciolo di immaturità!», sbottò. Io la lasciai sfogare, era la cosa migliore da fare in quel momento.

«Se si è immaturi non si possono portare in tasca le chiavi di casa», dissi accennando un leggero sorriso mentre voltavo lo sguardo verso Rose, «Dico bene bambina mia?».

«Ma… mamma!».

«Io ho già le chiavi di casa in tasca da molto tempo nonna», replicò Claire, mostrandomele con orgoglio e una leggera smorfia. Le sorrisi, Claire ricambiò, Rose abbassò lo sguardo verso il pavimento, ammutolita e a disagio.

«Anch’io voglio le chiavi di casa, anch’io le voglio! Mamma, papà, quando me le date? Ci voglio giocare!», strillò il piccolo Tommy che nel frattempo ci aveva raggiunti, divertito dalla scenetta recitata proprio davanti ai suoi piccoli occhi da improvvisati attori rimasti da soli a riempire il palcoscenico della vita.

Chissà come ci vedeva quel bambino da laggiù, con lo sguardo perennemente rivolto verso l’alto. Questi adulti “strani” che parlavano di cose “strane” invece di starsene belli tranquilli a giocare con i loro pupazzi. Forse si chiedeva dove li avevamo messi tutti i nostri pupazzi, i nostri giocattoli. Forse avrebbe voluto vederli, toccarli, prenderli per giocare con noi. E lui li avrebbe animati con la sua fantasia, gli avrebbe dato vita, forme e colori come solo un bambino sa fare. Per lui tutto è un gioco, la vita stessa è un gioco. E ogni volta il gioco è diverso anche se i pupazzi sono sempre gli stessi, perché nessuno meglio di un bambino è in grado di valutare tutte le possibili alternative, per renderle reali e dargli forma nella sua mente. Quindi perché mai non giocare, perché gettarsi tra le braccia di una esistenza fatta di paure, preoccupazioni e problemi? Lui chiedendo le chiavi voleva entrare a far parte del nostro mondo, ma noi avevamo già superato la fase della spensieratezza, avevamo affrontato con successo quella della conquista, della fatica. Ed io, a differenza degli altri, avevo già provato anche il gusto acre di quella dell’abbandono, per ben due volte. Gli altri, i più giovani, erano ancora fermi alle stazioni precedenti e da lì si godevano il paesaggio, bello o brutto che fosse, in attesa che il treno della vita li conducesse altrove, senza sapere dove. Potevano guardare in avanti alla ricerca di una meta. Ma anche indietro, verso il punto di partenza dove tutto il loro mondo ebbe inizio, nel fumo dei ricordi raddolciti dallo scorrere del tempo. Nel loro viaggio erano accompagnati da altri passeggeri, alcuni tristi altri felici, sani o malati. Proprio come loro. Cloni di una civiltà che vuole rendere tutti uguali, un formicaio osservato da un essere superiore dove i “diversi” sono considerati come anomalie, come formiche che camminano nella direzione opposta e non troveranno mai le briciole. Io invece potevo sforzare lo sguardo se lo rivolgevo verso l’inizio, verso il mio passato, attraverso la fitta nebbia dove tutti i miei ricordi si mescolano. Sono i miei, solo miei, disordinati e sparsi come soldati morti su un campo di battaglia che non avevano deciso dove cadere, uccisi mentre cercavano di portare a compimento il loro progetto e lì abbandonati per sempre, dimenticati da tutto e da tutti. Se guardo in avanti so che l’ultima stazione del mio viaggio non è poi così lontana. La posso quasi vedere, toccare con mano, la sento. Raggiungere la mia stazione d’arrivo è il mio ultimo progetto, quello che porterò a compimento prima o poi. E ora che anche l’ultimo mio compagno di viaggio entrato nel mio vagone a metà del tragitto, l’uomo che mi aveva tenuto compagnia facendomi sentire più viva che mai, era sceso dal treno senza nemmeno salutarmi, mi sentivo più prossima alla meta seppur in preda alla paura e al totale smarrimento. Lui era arrivato alla sua stazione, dove si concludeva la sua vita, il suo viaggio. Il prezzo che aveva pagato all’inizio per il suo biglietto gli permetteva di arrivare fino a lì, non gli era concesso andare oltre. A volte fantastico sui tramonti che vedrà da quel luogo, seduto da solo su una panchina in una stazione deserta. Mi chiedo anche se i raggi del sole che vedrà spuntare al mattino assomiglieranno a quelli che avevamo visto insieme durante le nostre mattine, seduti sul treno che procedeva nel viaggio senza che noi ce ne rendessimo conto. Attenderò quindi il mio tramonto con serenità ma senza fretta, accompagnata dal fumo dei miei ricordi e in attesa di fondermi con loro, per trasformarmi in un nuovo soldato caduto sul campo di battaglia e lì dimenticato. Da oggi sarò solo una spettatrice e osserverò le immagini della mia vita dispiegarsi al di là del finestrino del treno in corsa e ad ogni suo sobbalzo sulla rotaia ricorderò che sono ancora qui. Osserverò i passanti e aiuterò quelli che, smarriti nelle loro esistenze, mi chiederanno informazioni per raggiungere la loro meta. Ma non pretenderò mai di essere ascoltata e accetterò le critiche che mi saranno avanzate sul modo in cui io, semplice donna di periferia, ho affrontato il mio viaggio. E all’arrivo dell’alba ci sarà lui ai piedi del mio letto, lui come un’ombra nera e dai dettagli indefiniti mi risveglierà e mi chiederà di seguirlo per assistere ancora una volta ad una nuova nascita, la mia.

Claire mi guardava, forse aspettava una replica da parte mia che alimentasse quella discussione che appariva sterile ai miei occhi anziani. Potevo fare di più per lei, potevo farle un regalo. Quindi la delusi, non replicai alla sfida, ma mi arresi spogliandomi totalmente davanti a lei.

«Claire, vieni con me in giardino. Ti racconterò una storia se ti fa piacere».

«Di cosa si tratta nonna? Non mi parlare di favole o cose del genere, non sono più una bambina e non sono nemmeno dell’umore adatto per ascoltare storielle alle quali non credo più da tanto tempo».

«Si, forse è una favola piccolina mia. Dici bene. E’ per questo motivo che quando ci ripenso e prendo coscienza di quanto sia stata importante per me, sento i brividi attraversarmi il corpo in lungo e in largo. Ti parlerò della mia vita se vorrai stare ad ascoltarmi, perché tu possa confrontarla con la tua e per scoprire che nonostante le nostre generazioni tra loro così distanti non siamo poi così diverse tu ed io».

Claire fissò Rose per un istante. Rose le sorrise invitandola a seguirmi. Era commossa, lei conosceva tutta la mia storia fin nei minimi dettagli, anche quelli più intimi, uno dei quali si era trasformato in lei stessa. Accettò il mio invito con un silente movimento del capo, gli occhi bassi fissavano il pavimento. Era il suo modo per dirmi grazie. Il sole al crepuscolo confondeva i colori del mondo, uniformandoli in un’unica macchia nera e piana, privata della sua profondità. Sedute sulla stessa panca dove noi ci fermammo ad ammirare il tramonto per tante primavere, assaporavamo il gusto di un mondo che ci si mostrava in due dimensioni, dai colori indefiniti e privi di dettagli, scontornati da tutto e per tutti, perché nessuno nutrisse mai alcun dubbio sulla sua bellezza. Seguivamo con lo sguardo fisso l’arcobaleno dei colori dipinto nel cielo, dal rosso intenso a ridosso degli alberi anneriti dal sole che scendeva fino al blu intenso generato dalla profondità dello spazio, così come appare agli occhi se viene guardato da quaggiù. Presto quei colori si sarebbero disciolti come un dipinto ad acquarello dimenticato ancora fresco sotto la pioggia. Il rosso avrebbe preso il sopravvento sulla terra per poi cedere spazio all’oscurità incalzante della notte. Una notte senza luna, una notte con tante stelle.

Claire si sdraiò appoggiando la sua testa sulle mie gambe. Muoveva gli occhi seguendo i tratti del cielo, per contare quelle stelle che già si potevano scorgere nonostante la luce del giorno non fosse stata ancora spenta del tutto. Forse cercava una stella in più nel cielo, quella che non aveva ancora visto e che non era ancora stata avvistata da nessun osservatorio, da nessun telescopio. Si dice che quando si muore si diventa stelle. E’ bello pensare che potrebbe essere davvero così. L’accarezzai e notai che stava piangendo, quindi iniziai il mio racconto.

2

Era il mattino del 13 Settembre 1964 quando salii sul treno che da Charleston, nel West Virginia, mi avrebbe condotta a Cleveland, nell’Ohio. Avevo trentacinque anni, avrei dovuto essere una donna matura a quell’età. Ero cresciuta da un punto di vista biologico, questo si. A tratti mi sentivo persino invecchiata. Fuggivo, da qualcosa o da qualcuno. Scappavo via da una esistenza sbagliata, da un cumulo di eventi e situazioni che non mi appartenevano più. Avevo sentito dire che si capisce davvero che ci si sta allontanando per sempre da un luogo se al momento della partenza non si sente il desiderio di voltarsi per dare un ultimo sguardo all’ultima fotografia scattata sul proprio passato. Per giorni mi allenai, figurando quel momento fondamentale per la mia ripartenza, lo sguardo fisso in avanti con il mio tempo trascorso che veniva cancellato da ogni passo. Se la vita fosse stata un nastro di raso, guardando indietro la mia avrei visto solo un pezzo di stoffa lacerato, sgualcito e privato del suo colore originale. Annodato qua e là per segnare le tappe principali della mia esistenza, perché non potessero più essere dimenticate per errore o per mia volontà. Le tappe della mia vita o quella delle persone che avevano sempre deciso tutto in mia vece, i tutori e garanti della mia esistenza, assistenti di una povera ragazza menomata incapace di intendere e di volere. Si erano appropriati della mia vita e in essa avevano cercato e trovato una possibilità di riscatto delle loro miserevoli esistenze. Non notavo alcuna differenza tra le mie scelte e le imposizioni che mi venivano fatte, nonostante io mi sforzassi continuamente di cercarle per convincermi che era giusto così, che mi avevano insegnato le cose giuste, che io ero davvero la loro figlia e quindi avevano tutto il diritto e il dovere di esercitare su di me il loro possesso. Anche quello estremo. Più volte sentii mia madre piangere di nascosto nella sua camera da letto quando mio padre non c’era. Singhiozzi e lacrime amare soffocate in un lembo di stoffa, quelle stesse lenzuola che l’avvolgevano durante le sue notti insonni, passate a ripensare alla sua esistenza, alla sua vita rubata da un uomo che non la trattava meglio di quanto non trattasse le sue stesse scarpe. Quelle almeno le lucidava, ogni tanto. E quando non lo faceva doveva pensarci mia madre, altrimenti erano botte. Molte sere lo sentii rincasare molto tardi, ubriaco fradicio, un barcollante rifiuto di vita annegata in botti di Gin e Whisky. Gridava, incurante dell’ora e della moglie che forse dormiva o forse era rimasta sveglia in pena per lui, timorosa di come l’avrebbe ritrovato o di cosa le avrebbe fatto quella notte. Mio padre la picchiava spesso. La picchiava se lei fingeva di dormire quando lui entrava in camera al buio come un fantasma, sbattendo la porta contro il muro nell’intento di mantenersi in piedi. La picchiava se lei gli andava incontro per aiutarlo a sorreggersi, a cambiarsi o a coricarsi anche vestito. Tutto andava bene, purché quella notte passasse in fretta. Ma con quella notte se ne andava anche un pezzo della sua vita. Mamma attendeva che l’orco si addormentasse, poi andava in bagno e con un panno inumidito di acqua fresca tamponava i segni delle percosse ricevute. Io la sentivo, sentivo i suoi singhiozzi di dolore per quei colpi ricevuti su un volto che ormai non mostrava più espressione, forma o colore. Poi mia madre veniva da me. Mi trovava spesso sveglia, con gli occhi sbarrati in preda al terrore per ciò che vedevo impresso sul suo viso ogni volta. Tra le braccia soffocavo il mio orsetto di pelouche, immaginando e desiderando che fosse mio padre la mia vittima di quella notte. Quell’orsetto era uno dei pochi regali che avevo ricevuto da lui, per un compleanno di tre anni prima, quando ancora era un uomo occasionalmente sano. Grazie a lui imparai ad odiare il prossimo, quando al contrario una bambina dovrebbe solo imparare ad amare. Mia madre mi rassicurava, mi diceva che tutto presto sarebbe finito e che non avevo nulla da temere perché papà era solo un po’ stanco, aveva avuto una giornata difficile e una vita complicata, aveva dovuto sopportare situazioni dolorose come quella volta in cui un suo compagno di camerata e suo miglior amico morì tra le sue braccia, dilaniato da una delle decine di migliaia di granate fatte esplodere durante la seconda guerra mondiale, durante la quale lui aveva combattuto. Me la raccontava sempre, non se la risparmiava mai. Quasi a voler giustificare il comportamento di quell’uomo che non riconosceva più in nessuno degli aspetti che tanti anni prima l’avevano attratta, facendola innamorare di lui, convincendola che era per lei la persona giusta e che l’avrebbe sposato. Ed io per compiacerla fingevo sempre di sentirla per la prima volta, me ne stavo lì raccolta nel mio lettino in silenzio e quando mia madre finiva il suo racconto di quella sera io mi avvicinavo a lei per abbracciarla e per accarezzare i segni delle percosse, per capire quanto potessero farle male. Lei invece interpretava quel semplice gesto da parte mia come un immenso gesto d’amore che la ripagava di tutto, che la convinceva sul fatto che tutto sommato valeva ancora la pena di continuare a vivere per qualcuno. Per me. Mi chiedeva scusa mentre lentamente lasciava la mia camera, solo più tardi capii che si stava scusando per avermi messa al mondo. Le labbra disegnavano sul suo volto martoriato un debole sorriso, per me rassicurante perché non capivo ancora, non capivo tutto. Ma sapevo! Sapevo che mia madre stava ritornando nella tana dell’orco. Nascondevo la mia testa sotto le coperte, tremante. Vedevo un orco affamato con sembianze umane, quelle di mio padre, che io imbruttivo ulteriormente con il potere della mia fantasia di bambina. L’orco banchettava con i resti della mia mamma, facendone a brandelli le carni con i suoi denti aguzzi. Erano immagini così reali che mi pareva di sentire l’odore del suo sangue versato nel mio letto. L’orco mi chiamava, mi ordinava di entrare nella sua tana e mi porgeva un pezzo del suo corpo, la sua mano. Quella stessa mano che pochi istanti prima mi aveva accarezzato ora era lì inanimata davanti agli occhi potenti della mia mente. Quell’incubo mi accompagnava spesso per tutta la notte e per tutto il giorno seguente, nonostante le ombre e gli spettri che abitavano il buio avessero ceduto il passaggio alla luce del giorno. Era una tortura destinata a perdurare per tutta la mia vita. Ma accadde un fatto che riuscì a spezzare quel malefico incantesimo. Tutto svanì a partire dal giorno in cui, tornando dal college, trovai mia madre morta nel bagno. Era immersa in un lago di sangue, con i polsi lacerati dal freddo profilo di acciaio di una lametta. L’orco era entrato dentro di lei e da dentro l’aveva combattuta, consumandola goccia dopo goccia. Ma il moncone di candela ormai disciolta non aveva ancora scoperto completamente il suo stoppino e la fiamma era ancora accesa, seppur flebile. Lei, piccola e semplice donna privata della sua identità, aveva trovato il modo per sconfiggere il suo orco. Lo aveva fatto a modo suo, proprio quel giorno. E fu la sua vittoria più grande. Quel mattino mia madre mi consegnò per la prima volta il suo mazzo delle chiavi di casa. Io avevo finalmente raggiunto il mio traguardo, la mia maturità, sentivo di aver conquistato la sua fiducia anche se senza alcun merito particolare. Ma a mia insaputa anche lei sentiva di aver raggiunto il suo. Avevo ventidue anni quando iniziai ad accudire l’orco, a soddisfare da sola ogni suo desiderio, anche quello più malato. Le sue mani, i suoi piedi e tutto il suo corpo erano ora dedicati a me, solo a me. Ero rimasta da sola. La mia compagna di sventura mi aveva abbandonata, ormai troppo stanca per proseguire con me in quel gioco. Stanca di tutto, stanca della vita. Tre lunghi anni passarono prima che finalmente riuscissi a liberarmi di lui, anni che mi lasciarono totalmente priva di ogni dignità, denudata come donna e come essere umano. Cercai un lavoro presso l’ospedale come infermiera e stranamente mi accettarono subito. Quella fu la mia prima vera salvezza. Buttai i ricordi della mia dura infanzia nel cassonetto dell’immondizia che stava proprio davanti casa e radunai i miei quattro stracci ancora buoni, quelli che non avevo mai tenuto addosso mentre lui mi violentava, che non puzzavano del suo sperma, del suo vomito intriso di alcol e del mio sangue. Trovai una casa in affitto fuori città, poco dignitosa ma ci si poteva vivere. In fin dei conti che cosa ne sapevo io della dignità? Pagai l’anticipo con i pochi soldi che ero riuscita a racimolare grazie a piccoli lavori che persone di buon cuore nel vicinato avevano voluto assegnarmi. Erano a conoscenza della mia condizione di orfana di madre suicida e della brutta situazione nella quale mi dovevo sicuramente trovare per via di un padre indegno e con il quale avevano già avuto malauguratamente a che fare ben più di una volta. Avevo conservato gelosamente quel denaro in una cassetta di metallo nascosta sotto un’asse del pavimento, in attesa che arrivasse per me il momento giusto per poterlo utilizzare. L’orco non mi aveva mai permesso di andare a lavorare, non avrebbe mai voluto che io guadagnassi dei soldi miei, che diventassi autonoma e magari forte quanto bastasse per trovare il coraggio di andare a denunciarlo alle autorità. Affermava di essere lui stesso l’autorità, io ero una cosa sua e tale sarei dovuta rimanere per tutta la vita o almeno fino a quando lui non avesse deciso di sbattermi fuori da casa sua a calci.

Quando tutto fu pronto attesi con impazienza l’arrivo della sera. Seguii ogni suo passo mentre si preparava per uscire, cercando di non tradire le mie emozioni. Ripensavo alle sere precedenti, a come mi sentivo nel vedere un padre uscire di casa e a ciò che sarebbe avvenuto dopo, quando al suo posto sarebbe stato un orco a rientrare nella tana. Volevo replicare tutto anche in quel momento, come avrebbe fatto un mimo durante uno dei suoi numeri, le espressioni del mio viso incluse. Si avvicinò alla porta, la aprì. Poi si fermò e si voltò verso di me.

«Non vai a letto?».

«Non ancora».

«Perché?».

«Perché non ho sonno. Andrò tra un po’».

«Come vuoi. Non ti stancare però. Lo sai che sto male se ti vedo stanca, mi fa sentire come un cattivo padre».

Il cuore mi si fermò per un istante. Se per me fosse giunta la morte in quel momento, l’avrei accettata a braccia aperte. Non risposi, lo guardai, poi accennai un timido “si” con il capo.

«Sono stato un padre cattivo Melanie?», continuò come se provasse gusto nel perseverare in quel sanguinoso interrogatorio, «Rispondimi cazzo! Sono stato un padre cattivo io?».

«No», risposi piangendo e scuotendo freneticamente il capo per confermare una risposta alla quale io, ovviamente, non credevo. Tremavo. Afferrò il mio orecchio torcendolo con forza, con una violenza tale che cominciai a pensare che quel giorno me lo avrebbe staccato dalla testa.

«Brava, molto bene. Ora va meglio, molto meglio. Sei sempre stata una brava bambina, molto brava. Devi sempre ubbidire al tuo papà. In fin dei conti sono io a mantenerti, così come ho mantenuto quella puttana di tua madre per una vita intera, come un parassita. E vedi di farti trovare a letto quando sarò tornato, o te la vedrai brutta, molto brutta! Siamo intesi?».

Lasciò il mio orecchio e uscì sbattendo la porta. Rimasi seduta per qualche istante per assicurarmi che non rientrasse in casa per prendere qualche cosa che aveva dimenticato, come altre volte era accaduto. Ricordo che una volta rientrò dopo un paio di minuti per prendere una pistola che teneva nascosta in un cassetto, già caricata con i proiettili e pronta all’uso. Fu la prima ed ultima volta che vidi quell’arma, non seppi mai che fine avesse fatto o se l’avesse utilizzata contro qualcuno. Lui si accorse che lo stavo guardando mentre infilava la pistola nella cinta dei pantaloni, ero ancora molto piccola. Mi guardò.

«Allora? Che cos’hai da guardare! Devi essere grata al Padre Eterno se non l’ho ancora usata contro di voi!».

Rimasi immobile, pietrificata, gli occhi sbarrati accompagnati dalla bocca aperta con un’espressione simile a quella di stupore che mostrai quando ricevetti il mio pelouche, ma senza l’ombra del sorriso. Mi meravigliai di come la sua bocca potesse portare su di se il nome di Dio. Avevo visto una pistola solo in alcuni cartelli prima d’allora, non c’era ancora la televisione quindi non sapevo a cosa potesse servire quell’oggetto e perché lui si fosse arrabbiato tanto nel vedersi scoperto in quel momento. Arrivò mia madre in mio soccorso.

«Vieni tesoro, vieni con me. Papà ha tante cose da fare, lui non è arrabbiato con te. Non devi pensarlo, va bene?».

«Va bene mammina».

Le sue mani erano posate aperte sulla mia bocca, tanto strette che a fatica riuscii a risponderle, quasi volesse bloccare una mia frase pronunciata fuori posto. O quasi a volermi soffocare, per risparmiarmi tutti i dolori che, ne era sicura, avrei dovuto patire negli anni. Le sue mani profumavano di sapone. Adoravo quel profumo perché sapeva di fiori, sapeva di mamma.

Non rientrò. In quei minuti d’attesa avevo ingannato il tempo assaporando le mie lacrime, cercando di ricordare in quale momento passato le avessi già sentite con lo stesso sapore. Avevo un ricco campionario di gusti tra i quali scegliere, ma in quel momento nessuno sembrava corrispondere ad uno già noto. Avevo scoperto un gusto nuovo, le mie lacrime si erano leggermente addolcite. Corsi in camera mia, raccolsi i miei soldi e li infilai nella valigia. In punta di piedi scesi le scale, aprii la porta e guardai fuori, timorosa di ritrovarmelo lì davanti agli occhi pronto a dirmi “Ti avevo avvisata, avresti dovuto darmi retta mocciosetta! Ora passerai un guaio!”. Ma la sua ombra non c’era, non ci sarebbe stata mai più. Un passo, due passi, tre passi. Sempre più veloci, quasi di corsa. Imboccai il vialetto sulla destra, vidi il signor Smith sulla porta di casa sua mentre sistemava i fiori nei vasi posti sugli scalini all’ingresso. I suoi figli Martin e Sandy gli giravano attorno come fanno le farfalle con un bel fiore. Lui scherzava con loro e la madre, che li aveva raggiunti sulla soglia di casa, li stava a guardare sorridente. Rallentai per osservare meglio quell’immagine di famigliola felice, quella che io non avevo mai avuto, per portarla via con me facendo finta che fosse anche un po’ la mia.

Nei cinque anni che seguirono mio padre non venne mai a cercarmi. Quantomeno nessuno mi disse mai che l’aveva fatto. Quando tornai svogliatamente a casa il giorno del suo funerale i vicini mi raccontarono che quando rientrò quella notte in cui me ne andai, ubriaco fradicio come sempre, cominciò a gridare mettendo in allarme l’intero vicinato. Nessuno mi aveva vista uscire, nessuno fu in grado di rispondere alle domande che sbiascicò con la sua bocca avvelenata dall’alcol. Mi dissero anche che tramite le sue losche conoscenze era venuto a sapere dove mi trovavo ma che aveva deciso di lasciarmi stare, di non perseguitarmi oltre, perché sapeva di non essere stato un buon padre e mi avrebbe fatto solo del male se fossi stata costretta a tronare da lui. Avevo deciso di andarmene, per lui andava bene così. Qualcuno affermò che aveva deciso di premiare il mio coraggio, la capacità che avevo dimostrato nell’essere riuscita a metterlo alle corde. Non credetti ad una sola delle parole che mi erano state dette in quel momento da gente che nemmeno mi conosceva, ma poi mi rassegnai al fatto che potessero anche essere vere, perché comunque non mi importava più nulla di lui. L’orco era morto, ucciso da un altro orco durante un regolamento di conti, forse.

Erano circa le nove di sera del 15 settembre 1960. Pioveva ormai a dirotto e senza sosta da tre giorni, ne avremmo avuto ancora per un po’. Ero da poco rincasata dal lavoro, spesso facevo dei turni un po’ più lunghi per guadagnare qualche soldo in più. In cinque anni avevo guadagnato abbastanza soldi per decidere di comprarmi finalmente una casa tutta mia, aiutandomi con un piccolo prestito della banca. La mia vita era cambiata, stavo finalmente cominciando a trovare una mia identità. Debole forse, ma pur sempre mia. Il lavoro mi era stato molto d’aiuto in tutto questo, mi aveva permesso di rattoppare le ferite accumulate negli anni che mantenevano però il loro dolore sotto le numerose cicatrici sparse su tutto il mio corpo. Un dolore diffuso, più sopportabile seppur continuo ma che non lasciava spazio al riposo dell’anima. Riscaldai il mio precotto nel forno e mi sedetti al tavolo in attesa che venisse pronto mentre le mani reggevano il peso della mia testa.

La televisione era disponibile da pochi anni ma solo le famiglie più ricche potevano permettersi di comprarne e mantenerne una. Non di certo io. Quelle poche volte che veniva trasmesso qualcosa di interessante mi fermavo fuori dalle vetrine dei negozi di elettrodomestici dove si radunavano altri che come me non potevano averne una. Ma giunto l’orario di chiusura del negozio il solito omino grassoccio con i baffi si avvinava a noi, protetto dalla vetrina, per annunciare allargando le braccia sconsolato che “le trasmissioni per quel giorno erano finite”, o che l’indomani ci sarebbero state “delle ottime offerte in negozio alle quali non avremmo potuto rinunciare per portarci finalmente a casa il nostro primo splendido apparecchio televisivo”. Ce l’aveva scritte sul volto queste parole, non aveva bisogno di pronunciarle. Provai a rifugiarmi anche nei bar, quelli che mettevano un televisore a disposizione dei loro clienti, soprattutto durante i mesi freddi invernali o nelle serate di pioggia. Ma l’odore dei vapori dell’alcol mi arrivava subito alla testa, mi faceva ricordare mio padre e mi costringeva a fuggire via come un detenuto alla ricerca della sua strada verso la libertà.

In casa avevo una vecchia radio che accendevo ogni tanto, quando mi prendeva la voglia di sentire una voce che fosse sufficientemente distante e che non richiedesse una mia risposta, una interazione con me. L’avevo trovata su una bancherella dell’usato, in vendita per pochi dollari. Era guasta ma il venditore mi aveva assicurato che si sarebbe potuta facilmente sistemare. La comprai non completamente convinta di aver fatto un buon affare e un amico si offrì per ripararmela gratis. Si chiamava Ryan. Quel ragazzo fu l’unico uomo capace di regalarmi un po’ di sana e incondizionata amicizia, quella di cui avevo maledettamente bisogno, che non avevo mai avuto la fortuna di assaggiare in tutta la mia vita. Anche nei suoi confronti rimanevo piuttosto chiusa sotto diversi aspetti, ma mentre gli altri a fronte di ciò si sentivano in obbligo di sondare le mie debolezze, lui le rispettava. Ryan non mi chiese mai nulla che riguardasse il mio passato, non giudicò mai il bene o il male del mio operato e le poche scelte che avevo fatto da quando avevo cominciato a vivere come una donna libera. Capiva quando avevo voglia di parlare perché riversavo tutto come un fiume in piena e lui si lasciava travolgere. E accettava la mia fragilità espressa attraverso i silenzi, quando preferivo restare da sola a contemplare una foglia di insalata posata sul tavolo della cucina. Quando vedeva arrivare uno di questi miei frequenti momenti, lui mi faceva il gesto del saluto militare e si allontanava da me a passo di marcia, senza parlare, chiudendo dolcemente la porta dietro di sé. Mi faceva ridere, mi faceva stare bene. Come mai avevo riso ed ero stata bene prima nella mia vita. Provavo qualche cosa per lui, un sentimento strano che non riuscivo a riconoscere, a dargli un nome. Quando un giorno fummo l’uno di fronte all’altra in procinto di baciarci, lo allontanai con forza da me. Avevo avuto paura. Allora non capii di cosa ma sapevo essere pura paura. Tuttavia quel mio gesto immaturo non lo scalfì e continuò a comportarsi sempre allo stesso modo nei miei confronti. Un giorno mi disse che la sua famiglia si stava trasferendo per via del lavoro del padre e di alcune questioni che avrebbe dovuto affrontare. Non mi disse mai dove sarebbe andato a vivere, per una pura questione di sicurezza. Quindi ci saremmo dovuti allontanare per un po’ di tempo e io non avrei potuto raggiungerlo in alcun modo. Ma non dovevo temere perché lui mi avrebbe cercata, saremmo rimasti in contatto e si sarebbe fatto vivo non appena le acque si fossero calmate. “Te lo prometto Melanie. Dammi la tua mano, posala qui e ascolta. Lo senti il mio cuore?” furono le ultime parole che gli sentii pronunciare mentre posava la mia mano sul suo petto, prima del suo ultimo saluto militare, della sua ultima marcia che annunciava la sua partenza. Non risposi a quelle sue parole con altre parole mie che avrei invece voluto dire e che mi si annodarono nella gola soffocata dal pianto negandomi il respiro.

Attraverso quella radio che mi ricordava la sua presenza nella mia vita io subivo passivamente le trasmissioni, i notiziari, i bollettini metereologici, le canzoni dei Beatles, di Hendrix, di Armstrong e dei Rolling Stones. Da qualche anno un giovanotto si era presentato sul palcoscenico musicale. Si chiamava Elvis Presley, un ragazzo belloccio che faceva impazzire tutte le ragazze quando cantava con quei suoi movimenti pelvici regalati durante le sue esibizioni. Le giovani non si preoccupavano di impegnare buona parte dei loro stipendi per acquistare i suoi dischi o assistere ai suoi animati concerti, sognando magari di buttarsi nel vuoto ed essere raccolte in volo dalle sue forti braccia. La febbre per il bel ragazzo di Memphis colpì anche me. In un negozio trovai un suo disco e lo comprai anche se a casa non possedevo un giradischi. Lo lasciai in casa in bella vista per mesi a prender polvere. Lo adoravo in silenzio, mi capitava di fermarmi anche diversi minuti a guardarlo e tutte le volte che mi veniva consegnato lo stipendio mi prendeva la voglia di comprare un giradischi per poterlo finalmente ascoltare. Per le ragazze dell’età di ventotto anni, come la mia, Elvis era l’argomento che monopolizzava i discorsi tra colleghe, le pause pranzo, ogni momento della giornata. Sarebbe stato un buon partito sotto ogni punto di vista. Le mie colleghe, “le altre” come spesso le chiamavo, descrivevano fin troppo in dettaglio i pensieri erotici che avevano rivolto verso quel ragazzo. Alcune di loro confessarono che non avrebbero avuto nessun problema a lasciare marito e figli se il “bel ragazzo” avesse dato loro anche la minima speranza. Io non capivo fino in fondo quei discorsi, non ero in grado di misurare la forza della sorgente di energia che li alimentava. Ma quando si parlava di sesso io provavo una sensazione di crudo disagio, sentivo il ribrezzo nascere e crescere dentro di me, dalle mie viscere, attanagliante come due mani cinte intorno al collo e intente a soffocarmi. Il sesso mi ricordava l’orco, la mia sofferenza, il dolore e tutte le umiliazioni che avevo dovuto subire, il sapore dello sperma di un uomo malato sparso senza controllo sul mio giovane ventre, sulla mia candida pelle che avrebbe dovuto conoscere solo purezza e pudore, del mio sangue e di quello di mia madre versato ogni giorno sulle bianche lenzuola di un letto sempre sfatto. Le mie conoscenti si accorsero che qualcosa non andava in me. Alcune di loro scelsero di non impicciarsi, qualcun’altra invece lo fece, con l’acerbo pretesto di offrirmi un aiuto prezioso.

«Cosa c’è Mel?».

«Nulla, perché me lo chiedi?».

«Così. Sei molto strana».

«Sono fatta così, che cosa ci vuoi fare», risposi aprendo le braccia in segno di confermata rassegnazione al disegno della mia vita.

«Ti piacciono le donne?».

«Scusa?».

«Ti ho chiesto se ti piacciono le donne, se ami loro».

«Le donne? Ma non dire sciocchezze, dai!».

«In tanti anni non ci hai mai raccontato una tua esperienza sessuale vissuta con un uomo, mentre noi tutte lo abbiamo fatto. Okay, magari tu non l’hai ancora avuta ma forse vorresti averla e potresti confrontarti con noi. E invece tu che fai? Ti rinchiudi nel tuo guscio come una tartaruga!».

Come potevo dirle che la mia “prima volta” fu all’età di cinque anni e per opera di mio padre? Mi era stato detto che si sarebbe trattato di un gioco. Come potevo convincerla del fatto che quel gioco che lui aveva pensato per me e che consisteva nella spudorata esplorazione della mia intimità in realtà non mi era piaciuto affatto perché io a quell’età avrei preferito giocare con le bambole come faceva ogni altra bambina? Come potevo gridarle in faccia che se io non avessi giocato con lui in quel modo lui sarebbe andato a costringere mia madre a sottomettersi alla stessa pratica, allo stesso gioco ma con regole diverse e ben più severe, adatte agli adulti?

«E’ un discorso che non mi sento di affrontare, non c’è una particolare ragione. Forse non sono ancora pronta o forse non lo sarò mai. E’ così, e basta».

«Okay Mel, come vuoi. Stasera noi ragazze ci troviamo per un pigiama party. Ti va di unirti a noi?».

«Ci saranno degli uomini?».

«No».

«Si parlerà anche di sesso?».

«Non lo so, ma temo di si».

«Allora no, grazie. Non avrei nulla da dire e sarei solo un peso per tutti».

Quando rincasai quella sera stessa presi il disco di Elvis e lo gettai nel bidone dell’immondizia.

Sentii suonare il campanello, una volta e poi una seconda prima che io riuscissi a raggiungere la porta.

«Sto arrivando!», esclamai ad alta voce.

Quando aprii la porta mi trovai di fronte un poliziotto. Pioveva a dirotto. Il poliziotto aveva la divisa bagnata, nonostante fosse sceso dalla volante parcheggiata solo a pochi passi dalla porta di casa mia. Un suo collega sedeva ancora al posto di guida e guardava verso di noi, con il corpo proteso in avanti e gli occhi rivolti verso l’alto per inquadrare meglio la scena attraverso la cornice del finestrino.

«Buonasera agente», dissi sorpresa.

«Buonasera. Lei è la signorina Melanie Warren?».

«Si sono io agente, che succede?».

Ero spaventata e distratta dal lampeggiante della loro auto che muto abbagliava la mia vista. Disegnava ombre azzurre nella notte che si dispiegavano a terra e contro la facciata della casa. Erano ombre pulsanti, lente, come il battito del mio cuore.

«Sono l’agente Parker signorina. Potrei entrare per favore?», chiese mentre mi mostrava il distintivo con una sua foto di qualche anno prima. Lo lasciai entrare, avvicinai la porta ma senza chiuderla.

«E il suo collega là fuori?».