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«Caro Aleksej, sono pur sempre la figlia di un Generale del KGB. Cosa credi che non abbia anch’io le mie fonti d’informazione. Io ti ho sempre protetto e ti proteggerò sempre, ovunque tu sia…, ovunque tu vada. Ma non preoccuparti, la tua destinazione finale è Mosca e non la Siberia». Poi gli sorrise e con un cenno della mano fece segno al figlio di seguirla in cucina.
«Siediti che ti preparo il the con il miele. I tuoi biscotti preferiti li ho appena sfornati.»
Solo allora Aleksej annusò il forte odore dei biscotti provenire dal forno. Era un profumo che gli ricordava l’infanzia ma il trambusto di quella giornata sembrava che avesse spento all’improvviso il suo senso olfattivo. L’atmosfera in casa si era rasserenata ed entrambi continuarono a parlare, finalmente liberi dai segreti, uno accanto all’altro.
CAPITOLO SECONDO
Mosca
5
L’auto sobbalzò e Aleksej, ancora semi addormentato per l’alzataccia mattutina, aprì improvvisamente gli occhi e scrutò fuori dal finestrino. Una pioggerellina stava liberando le sue lacrime e ogni goccia scivolava rapidamente sui vetri per far posto ai nuovi arrivi.
«Maggiore Marinetto», esclamò l’autista, «siamo quasi arrivati in aeroporto e tra due minuti saremo all’entrata delle partenze».
Era la voce dell’attendente del Generale Sherbakov. Aveva avuto il compito di accompagnare Aleksej a Pulkovo, addirittura con la Mercedes C220 nera del comandante. Era un grande privilegio e il Maggiore ne era consapevole ma, nonostante tutte le accortezze, i suoi timori per quel viaggio inaspettato rimasero inalterati.
«Grazie tenente Cjukov, si fermi pure qui a lato» rispose cortese, trattenendosi dal fare il saluto militare, poi lo congedò con una semplice stretta di mano e un semplice grazie. Con il suo minuscolo bagaglio si diresse in direzione del check-in per Mosca. Gli era stato ordinato di vestirsi in abiti civili e di portare con sé solo lo stretto necessario. E così aveva fatto. A Mosca avrebbe trovato qualcuno ad attenderlo ma non conosceva né il suo nome né il suo grado.
«Probabilmente sarà qualche giovane attendente», pensò Aleksej, mentre disciplinatamente si metteva in fila con gli altri passeggeri. Era decisamente preoccupato ma doveva mascherare bene quel suo stato d’animo e comportarsi come un comune cittadino russo. In quella strana circostanza era necessario che abbandonasse la sua proverbiale aria marziale che lo faceva sentire così ridicolo senza la divisa addosso.
«Volo S7022 per Mosca, affrettarsi all’imbarco», gracidò una voce gentile dagli altoparlanti della sala d’aspetto. Aleksej ancora non sospettava che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto la sua amata S. Pietroburgo. Gli era stato concesso troppo poco tempo e non era riuscito a salutare tutti gli amici e i compagni di hockey. Forse anche per questo si sentiva stranamente triste e vuoto.
Il volo fu breve e tranquillo, senza nessun incontro strano o particolare da segnalare. Si diresse verso l’uscita dell’aeroporto Domodedovo e si fermò davanti alla lunga fila di taxi gialli che, disciplinatamente, aspettavano l’arrivo dei clienti. Con lo sguardo scrutò in ogni direzione ma del suo contatto nemmeno l’ombra. «Il mio attendente dev’essere in ritardo» pensò Aleksej mentre guardava impaziente l’orologio. Non poteva fare altro che aspettare perché gli era stato ordinato di non allontanarsi dall’uscita, per nessun motivo.
Improvvisamente si accorse di un uomo che gli veniva incontro con le braccia allargate. Aveva stampato sul volto un sorriso e l’aria di chi sembrava conoscerlo da tempo.
«Aleksej, amico mio, come stai? Finalmente sei arrivato», disse lo sconosciuto con voce stucchevole. Lo strinse forte a sé e gli sussurrò all’orecchio: «Stai al gioco e seguimi senza fare domande, forse siamo sorvegliati».
Aleksej restò completamente immobile, era sorpreso, imbambolato e fece in tempo a farfugliare solo poche e incomprensibili parole: «ma tu chi…».
Lo strano tipo prese il piccolo bagaglio dalle sue mani e lo posò nel retro dell’auto; quindi lo invitò a salire sul davanti e insieme partirono a gran velocità per destinazione ignota.
Quando si furono allontanati abbastanza Aleksej si voltò verso quell’improbabile accompagnatore e con piglio deciso e altero gli disse: «Allora, razza di idiota, mi dici finalmente cos’è questa pagliacciata e dove siamo diretti?».
«Si calmi Maggiore Marinetto», rispose a tono lo sconosciuto, «lasci che mi presenti. Maggiore Kostja Maksimovic Skubak, dell’SVR di Mosca. Sono un agente dei Servizi con il compito di accompagnarla a destinazione». Tirò fuori dalla giacca un tesserino e lo appoggiò sul cruscotto dell’auto.
Aleksej prese tra le mani il documento e cominciò ad osservarlo. Non era un esperto in contraffazione ma quello gli sembrava proprio originale o, quanto meno, un’ottima imitazione. Lo restituì a Skubak accompagnando il gesto con una smorfia di disapprovazione.
«Servizi segreti…?», replicò irritato, «questa dev’essere sicuramente opera di mio nonno Andrej. Ma gli dica che deve rassegnarsi perché sa benissimo che non ho nessuna simpatia per voi. Disapprovo i vostri metodi da nazisti per cui è inutile che proviate a reclutarmi.» Poi, col tono perentorio di chi è abituato a comandare e impartire ordini, concluse: «Accosti e mi faccia scendere. Immediatamente.»
«Abbia pazienza ancora per trenta minuti e poi tutto le sarà più chiaro» lo incalzò Skubak. «Siamo diretti alla sede centrale dell’SVR. Il direttore Petrov in persona la sta aspettando. Li capirà ogni cosa e avrà tutte le risposte alle domande che le frullano in testa. Ma fino a quel momento la prego di mettersi comodo e di rilassarsi. La strada è ancora lunga e devo essere certo che nessuno ci segua fino al nostro arrivo».
Infilò la mano destra sotto il sedile di guida e rimase alcuni secondi a frugare come se stesse cercando qualcosa di importante, facendo comunque attenzione a non perdere di vista le auto che lo precedevano. Quando ebbe finito rimise a posto il tappetino e mostrò soddisfatto ad Aleksej un pacchetto di sigarette già aperto e pieno a metà.
«Vecchie abitudini caro collega… dure a morire…, ma sto cercando di smettere di fumare. Comunque puoi chiamarmi Kostja. Qui da noi siamo informali e prevedo che trascorreremo diverso tempo insieme nelle prossime settimane».
«Lo escludo categoricamente… collega…», lo incalzò Aleksej con ironia, «questa sera sarò già sul primo volo per San Pietroburgo. Non ho intenzione di seguire le orme di mio nonno e certamente non desidero diventare una spia. Se con questo becero espediente sperava che ci cascassi allora si è sbagliato di grosso. Glielo dica pure quando lo vede».
«Vedremo… vedremo…» lo incalzò Kostja sorridendo, «ma credo che lo incontrerai molto presto, così potrai dirglielo tu, di persona, direttamente in faccia».
A quell’ora Mosca era già caotica e immersa nel traffico mattutino. Un timido sole primaverile provava a farsi strada, tra enormi nubi, con tutta la forza dei suoi raggi. Proseguirono dritti verso il centro, lungo via Tverskaja, poi svoltarono repentinamente in una delle tante stradine laterali, ma troppo velocemente perché Aleksej potesse leggerne l’indirizzo. Dopo alcune centinaia di metri l’auto si fermò nei pressi di un grande palazzone color giallo ocra, con tante finestre messe insieme una accanto all’altra e con i vetri oscurati. All’apparenza sembrava un classico edificio amministrativo, ma in realtà era la sede dell’SVR di Mosca, l’ex KGB.
«Siamo arrivati» esclamò Kostja, «per favore seguimi senza fare scenate e ti prometto che avrai le risposte che stai cercando da tutta una vita. Qui sei al sicuro, addirittura meglio che al Cremlino».
6
Giunti all'ingresso Aleksej fu accolto da un imponente stemma color marrone. Aveva la forma circolare con al centro una grande stella a cinque punte. Un piccolo globo blu brillante al suo interno. La scritta, in cirillico, ne annunciava pomposamente il nome – Služba Vnešnej Razvedki Rossisnoj Federazi (Servizio di Intelligence Internazionale della Federazione Russa).
Superarono il metal detector e mostrarono i documenti alle due guardie. Erano entrambi disarmati. Ricevettero i badge per accedere al settimo piano dove li sarebbe il direttore Petrov. Filarono in tutta fretta verso uno dei tre ascensori e presero quello meno affollato. Giunti al piano, svoltarono alla loro sinistra e si avviarono per un lungo corridoio.
Il pavimento era di marmo massiccio, di colore bianco lucido, intarsiato da piccole strisce nere con un tappeto rosso ruggine che ne copriva il centro per tutta la sua lunghezza.
Aleksej notò un grande andirivieni di uomini e donne. Camminavano nervosamente da una parte all'altra del corridoio, entravano e uscivano da varie stanze, con in mano fascicoli e pile di documenti. Il quel trambusto nessuno li degnò di uno sguardo né di un saluto, come se fossero stati invisibili.
«Questi gli uffici della Sezione I. Sono gli analisti che si sono delle informative quotidiane per i nostri agenti all’estero. Non preoccuparti… ci fari l’abitudine. Sembra che siano immersi nel caos ma ti assicuro che sono efficienti e super organizzati. Comunque non è qui che siamo diretti». Con il pollice della mano destra Kostja indicò in alto, come per dire: dobbiamo salire ancora. Fecero pochi scalini e si ritrovarono su di un piano ammezzato. Alle fine si fermarono davanti ad una grande e massiccia porta di abete con la scritta Dipartimento S. – Direttore Petrov».
Kostja bussò con vigore e dall’interno risuonò una voce gentile: «Avanti, prego, accomodatevi».
«Ciao Silvya», esordì sorridendo, «come vedi siamo puntuali. Immagino che il direttore Petrov ci stia aspettando».
Aleksej non poté fare a meno di notarla: era una graziosa ragazza bionda, capelli corti a caschetto e grandi occhi marroni. Aveva un trucco leggero e pensò che potesse avere, più o meno, la sua età. Li aveva accolti con un sorriso di circostanza ma il suo sguardo freddo e glaciale tradiva una certa tensione.
«Puntualissimo Kostja. Il Direttore vi sta aspettando. Entrate pure», replicò Silvya decisa, senza aggiungere altro. Aleksej diresse lo sguardo nell’angolo in alto del soffitto dov’era posizionata una piccola telecamera.
Solamente adesso intuiva perché la ragazza era rimasta seduta per tutto il tempo e non si era alzata per andare loro incontro. Aveva la mano destra ancora poggiata sulle gambe, segno inequivocabile che impugnasse una pistola. Dal loro arrivo al piano terra erano stati seguiti passo passo dalle telecamere a circuito chiuso. In un’altra stanza, lì vicino, dovevano esserci degli altri agenti armati, pronti ad intervenire in caso di necessità, a protezione della sicurezza del loro capo.
Entrarono e si fermarono al centro della stanza. Il direttore Fyodor Ivanovic Petrov era in piedi, girato di spalle, mentre guardava fuori dalla finestra. Era un uomo già oltre la cinquantina, della vecchia scuola del KGB. Aveva superato indenne il periodo di transizione e adesso comandava l’importante Dipartimento S dei servizi segreti russi. Capelli rasati a zero, occhiali da vista tondi da intellettuale, di aspetto longilineo, quasi magro, indossava un doppio petto grigio dal taglio sartoriale impeccabile. Tutti lo rispettavano e fin dal primo sguardo sapeva incutere timore.
«Buongiorno direttore», esordì Kostja dirigendosi lentamente verso la finestra, «le ho portato il Maggiore Marinetto… come richiesto. Nessun imprevisto da segnalare, anche se all’inizio il nostro ospite ha mostrato una qualche resistenza. Ma era facilmente prevedibile considerata la segretezza della sua convocazione».
Petrov girò lentamente il capo in direzione dei nuovi arrivati con una smorfia di approvazione. Sembrava che fosse rimasto in piedi a lungo, probabilmente preoccupato per la lunga attesa. Poi si voltò completamente e, dopo aver spostato la sua poltrona di pelle nera, appoggiò entrambe le mani sulla grande scrivania di mogano.
“Bravo Kostja, molto bene!!”, rispose con voce baritonale, “ma adesso ho bisogno di restare da solo con il Maggiore. Prenditi la giornata libera. La tua missione, per oggi, è finita”. Aggrottò le sopracciglia e strinse le palpebre per squadrare meglio Aleksej. Con l’intensità del suo sguardo cercò di mettere subito in soggezione Aleksej, quindi attese che l’agente Skubak fosse uscito dalla stanza e, quasi a scusarsi per l’intemperanza del suo sottoposto, si avvicinò per stringergli la mano. La stretta fu forte e calorosa e lo invitò a sedersi di fronte a lui.
“Finalmente ci conosciamo”, disse con tono sarcastico il direttore Petrov, “in tutti questi anni suo nonno non ha fatto altro che parlarmi di lei, di suo nipote Aleksej, di tutti i suoi successi sportivi e della sua brillante carriera militare”.
Aprì lentamente un fascicolo rosso che, di proposito, aveva lasciato in bella evidenza al centro della sua scrivania. All’interno vi erano diversi fogli fittamente compilati a mano, con perfetta grafia femminile, e alcune fotografie. Aleksej intuì che doveva trattarsi del suo fascicolo personale e non fece nulla per nascondere a Petrov il suo fastidio. Era stato sbattuto su di un volo per Mosca in tutta fretta e adesso si trovava in presenza del capo dell’SVR.
Tutto gli appariva così assurdo e privo di giustificazione.
I metodi usati da Petrov non erano certamente quelli che aveva imparato ad apprezzare in Accademia. Ma lasciò che facesse la prima mossa e solo dopo avrebbe deciso se e come reagire.
“Capisco il suo stato d’animo”, disse Petrov con calma apparente, “anch’io al suo posto sarei nervoso se fossi stato convocato all’improvviso e in tutta segretezza. Stia tranquillo perché oggi avrà tutte le risposte alle sue domande. Ma prima di iniziare mi dica cosa posso offrirle: tè…, caffè…, tutto quello che desidera. Magari posso farle portare un ottimo caffè espresso italiano che lei certamente apprezzerà”, concluse abbozzando un sorriso di circostanza nel tentativo di mettere a proprio agio quell’ospite così importante.
«No. Grazie. Ho già fatto colazione in aeroporto», ribatté asciutto Aleksej. Ormai era interessato solo a concludere rapidamente quella strana giornata e prendere il primo aereo per tornarsene a San Pietroburgo.
«Va bene… andiamo subito al sodo. Vedo che è ansioso di conoscere il motivo di questa sua inattesa visita. Le dico subito che riguarda la sua famiglia e suo fratello Luca… in particolare. Sappiamo che sua mamma le ha già raccontato molto… ma se siamo qui è perché abbiamo bisogno del suo aiuto… della sua collaborazione… come cittadino russo e come patriota…».
«Cosa c’entra la mia famiglia con i Servizi Segreti?», lo interruppe bruscamente Aleksej. «Se escludiamo mio nonno Andrej non abbiamo nessun punto di contatto tra di noi. Si… in effetti mia mamma mi ha parlato di quello che è successo quand’ero piccolo. È vero… non sono figlio unico… ho un fratello gemello… ma non vedo come questo possa interessarvi. Perché volete coinvolgere mio fratello Luca?».
«Si calmi Maggiore. Mi lasci spiegare e vedrà che alla fine tutto le sarà più chiaro», lo incalzò Petrov con tono conciliante.
«Lei sa che Luca è la sua copia quasi perfetta. Siete diversi solo per un piccolo particolare: una minuscola macchiolina rossa all’interno della gamba destra di suo fratello. Per il resto siete praticamente identici. Probabilmente oggi nemmeno i vostri genitori sarebbero in grado di distinguervi l’uno dall’altro».
Prese dal fascicolo alcune fotografie e gliele porse.
Aleksej si era sbagliato!! Petrov non aveva tra le mani il suo fascicolo bensì quello di Luca. Le foto lo ritraevano in situazioni diverse: al parco, al Colosseo o seduto al tavolino di un bar che sorseggiava una bibita. Mentre le osservava con attenzione fu colpito da un particolare: una bellissima ragazza mora, dai lunghi capelli corvini, teneva per mano Luca.
Era presente in tutte le foto, gli sorrideva teneramente e dagli sguardi languidi si capiva che erano intimi, probabilmente innamorati. Aleksej era felice di poter finalmente vedere il volto di suo fratello ormai adulto e questo fece stemperare la tensione che si era creata nella stanza.
Restituì le foto a Petrov che le richiuse nel fascicolo.
«Lei ha perfettamente ragione… io e mio fratello siamo identici. Anch’io avrei difficoltà a capire chi è l’uno e chi è l’altro».
Petrov colse al volo l’occasione e rincarò la dose.
«Lei sa che suo fratello vive in Italia… a Roma per la precisione… dove ha intrapreso la carriera militare… esattamente come ha fatto lei… ma solo dall’altra parte della barricata. Quello che ancora non sa è che Luca frequenta il Nato Defence College (NDC in gergo tecnico). È un collegio militare che si occupa della formazione degli ufficiali superiori per attività di alto profilo. Tempo fa questa circostanza ha attirato la nostra attenzione. Da molto tempo monitoriamo suo fratello. Non lo abbiamo mai perso di vista… neppure per un attimo. La scuola è finita e tra due settimane Luca riceverà il suo primo incarico ufficiale nella Nato. Un nostro agente infiltrato ci ha informato che sarà destinato al Joint Warfare Centre (JWC) di Stavanger… in Norvegia».
«Tutto molto interessante… Petrov… ma io in tutto questo cosa c’entro?», domandò perplesso Aleksej.
«Lei c’entra eccome… Maggiore!! Dovrà prendere il posto di suo fratello Luca e infiltrarsi nell’alto comando della Nato. È in gioco il futuro della nostra grande Nazione. Questo è quanto. Per adesso non posso riferirle altro».
Aleksej, che fino a quel momento aveva ascoltato con attenzione, si alzò in piedi di scatto e minacciò Petrov con l’indice della mano destra. «È assurdo!! Io non sarò mai una spia. Dovete lasciare in pace la mia famiglia… lasciare in pace mio fratello Luca. Stiamo ancora soffrendo per il male che ci avete causato e adesso venite a chiedere il nostro aiuto? Farò un casino tale con l’Alto Comando che la smetterete… una volta per tutte… con i vostri giochetti da guerra fredda. Se ancora non l’avesse capito il comunismo è morto e sepolto. Adesso siamo una democrazia e viviamo in pace con l’occidente. Ecco… appunto… lasciateci in pace».
Aleksej si diresse a grandi passi verso l’uscita ma Petrov gli urlò dietro: «Se vuole che suo fratello Luca viva… non lasci questa stanza… e torni a sedersi. Maggiore Marinetto questo è un ordine!!».
Aleksej si voltò irato: “Siete proprio dei gran bastardi. In tutti questi anni non siete cambiati affatto. Voi e i vostri metodi stalinisti. Siete delle iene… sanguisughe”.
«Si sieda Maggiore e non terrò conto delle sue offese. Abbiamo poco tempo per organizzare tutto alla perfezione e litigare non ci aiuterà affatto. Lei deve capire che in ballo ci sono interessi enormi, che vanno al di là di me… di lei… della sua famiglia. È in gioco la sicurezza nazionale… quella del Paese che lei afferma di amare così tanto. È arrivato il momento di dimostrarlo… è arrivato il momento che lei decida da che parte stare. Le consiglio di collaborare senza fare troppe storie. Al nostro prossimo incontro le rivelerò altri particolari della sua missione ma… per adesso… segua il nostro agente che l’accompagnerà alla sua prossima destinazione».
Premette un pulsante sull’interfono e ordinò perentorio: «Agente Ratcenko, nella mia stanza!!».
La porta si spalancò ed entrò una splendida ragazza alta, mora, con lunghi capelli corvini. Indossava jeans aderenti e una camicetta bianca, sbottonata strategicamente per mettere in risalto le sue forme perfette. Aleksej la riconobbe subito, l’aveva già vista. Era la donna delle foto, quella che teneva per mano suo fratello Luca.
«Le presento l’agente Irina Borisovna Ratcenko», disse Petrov indicandola con la mano. In quel momento lo sguardo di Irina era tutto per Aleksej. Gli si avvicinò con calma per poterlo osservare meglio e gli accarezzò il volto dolcemente con il dorso della mano. Quando ebbe finito si rivolse verso il suo capo e, con un misto di meraviglia e stupore, esclamò: «Come due gocce d’acqua. Veramente impressionante».
“Bene signori è tutto. Potete andare. Con lei Aleksej ci rivedremo molto presto. Nel frattempo segua alla lettera le istruzioni dell’agente Ratcenko e tutto andrà per il meglio, per lei e la sua famiglia”.
Petrov aveva pensato bene di congedarsi dal suo ospite con un’ultima sottile minaccia.
7
Usciti dalla stanza Petrov ripose il fascicolo di Luca in un cassetto che chiuse subito a chiave. Poi si diresse verso la libreria, prese un voluminoso libro, lo aprì e dal suo interno estrasse una piccola bottiglia di vodka e un bicchierino di vetro. Quindi si sedette nuovamente alla scrivania affondando nella sua grossa sedia direzionale di pelle nera. Prima si versò da bere e poi chiamò Silvya con l’interfono.
«Contatti il Generale Sherbakov su una linea sicura», le ordinò categorico.
«Buonasera Generale Sherbakov. Sono Petrov. Come sta?».
«Molto bene Petrov. Allora… mi dica… l’operazione Bruxelles procede?».
«Sì… Generale. Il Maggiore Marinetto è andato via da poco. Collaborerà senz’altro. Ha capito di non avere alternative. Sa benissimo che è a rischio la propria vita e quella di tutta la sua famiglia. Ho cercato di far leva sul suo senso del dovere… sull’onore… sulla Patria… ma la sua reazione è stata esattamente come mi aveva prospettato. Il Maggiore è molto sveglio e furbo e dobbiamo fare molta attenzione. Ma non abbiamo più molto tempo e in questa operazione possiamo servirci solamente lui. Purtroppo il fratello Luca si ostina a non voler collaborare. È un testardo figlio di puttana… così come un altro membro della sua famiglia…, e lei sa benissimo a chi mi sto riferendo: il Generale Andrej Vladimirovic Halikov».
“Sì Petrov… so benissimo che questo è un grosso rischio… ma Andrej è un vecchio amico di Accademia e si è detto entusiasta di collaborare con lei e la sua squadra per ammorbidire l’irruenza di entrambi i nipoti. Ma è ‘una vecchia volpe’, conosce tutti i trucchi del mestiere. Va tenuto costantemente sotto sorveglianza… così come sua figlia Maria. Comunque… Andrej è una persona concreta e va lusingato con promesse credibili. Lo faccia sentire coinvolto… importante… ma lo tenga lontano dal cuore della missione”.
«Generale… sappiamo da fonte certa che alla Nato stanno facendo pressione per avere al più presto la nuova arma a radiazione elettromagnetica. Desiderano sperimentarla simulando un attacco in forze. Non sappiamo esattamente quando questo accadrà… ma capisce bene anche lei che non abbiamo tempo per usare i metodi tradizionali con la famiglia Marinetto. Dovrà essere tutto pronto il giorno in cui inizieranno le esercitazioni della Nato. Quest’arma dovrà cadere in nostro possesso oppure essere distrutta. Purtroppo stiamo lavorando molto in fretta…. troppo in fretta anche per i nostri standard».
«Petrov… lei sa benissimo che dalla riuscita di questa operazione dipende la sicurezza e il futuro della nostra Nazione. Se fallirà metterà a rischio non solo le nostre carriere e le nostre vite… ma la pace del mondo intero. Si ricordi che il Comitato non esiterà a prendere decisioni drastiche se si sentirà minacciato. Il fallimento non è ammissibile».
«Sono d’accordo con lei sig. Generale. Da questo momento ha ufficialmente inizio l’Operazione Bruxelles. La terrò costantemente aggiornato sugli sviluppi della missione. Se sarà necessario le chiederò di intervenire personalmente con il Maggiore Marinetto. Lui si fida ciecamente di lei. È il suo comandante e con la sua autorità potrà riportarlo alla ragione».
«Petrov… lei prevede che il Maggiore Marinetto potrà darci seri problemi?».
«Non lo so Generale. Non è devoto alla causa e alla Patria, ma solo alla sua famiglia. Ho la netta sensazione che tra i due fratelli esista ancora un forte legame, nonostante la lontananza degli ultimi venti anni. Lei sa cosa si dice sui gemelli monozigoti. Una singola cellula viene fecondata e nascono figli dello stesso sesso e praticamente identici. Un vero scherzo della natura…, estremamente raro. Io credo che i due fratelli si percepiscano l’un l’altro, subendo una sorta di attrazione psichica».
«Quando saranno entrambi a Sochi, a pochi chilometri l’uno dall’altro, penso che questa loro percezione sarà enormemente ampliata, come se avessero dei super poteri».
«D’accordo Petrov. Ma cerchi di coinvolgermi solo se strettamente necessario per la riuscita della missione. Il Comitato non approva che i suoi membri si espongano troppo. Il rischio di essere scoperti è troppo alto e non ho nessuna voglia di morire…, almeno non così presto».
«Certo sig. Generale. Ho capito. La contatterò solamente in caso di estrema necessità».
«La saluto Petrov. La prossima volta che ci incontreremo sarà solo per festeggiare. La inviterò qui a San Pietroburgo, nel miglior ristorante della città. Ma si ricordi bene… la parola fallimento non è contemplata nel nostro vocabolario. Non ci sarà concessa una seconda possibilità».
«La saluto Generale… stia bene».
Petrov chiuse la conversazione appoggiando lentamente la cornetta sul ricevitore. Rimase qualche istante con la testa tra le mani, estremamente pensieroso.
La tensione e lo stress lo stavano uccidendo.
Si allentò il nodo della cravatta e ingurgitò rapidamente il piccolo bicchiere di vodka che aveva precedentemente riempito. Sapeva di non poter perdere altro tempo e come se fosse stato morso da una tarantola, premette repentinamente il pulsante dell’interfono.
«Silvya… contatti Skubak… immediatamente».
CAPITOLO TERZO
Il Covo
8
Aleksej non poté fare altro che seguire in ascensore la sua bella collega, ma mille pensieri gli affollavano la mente. Aveva ottenuto solo una parziale spiegazione da parte di Petrov e questo non aveva fatto altro che accrescere i suoi dubbi. La sua famiglia era seriamente in pericolo, compresa sua mamma Maria. Prima di arrivare al parcheggio pensò di contattare telefonicamente suo nonno Andrej, cercando di non farsi scoprire, ma la sua nuova amica lo guardava a vista e lo controllava molto da vicino. Era sicuro che solo il nonno sarebbe stato in grado di mettere fine a quel terribile incubo. Avrebbe escogitato qualcosa in seguito, ma adesso aveva solo bisogno di un po’ di riposo per rimettersi in sesto.
Salirono a bordo di una Porche Carrera 911 nera, con i sedili in pelle rossa. Irina lo fissò negli occhi con atteggiamento di sfida: «Che hai da guardare… cosa credi che una donna non sappia guidare un bolide come questo?». Il motore urlò tutta la sua potenza, poi l’auto ebbe un sussulto e partì come un razzo sgommando sull’asfalto e lasciando profonde strisce di pneumatici. Irina guidò spericolatamente per le vie del centro, sorpassando e zigzagando come un pilota esperto. Ad intervalli regolari si voltava verso Aleksej guardandolo con aria soddisfatta.
«Come vedi… caro collega… in Accademia riceviamo un addestramento di prim’ordine. La mia specialità, tra le altre cose, è la guida veloce. Ma ho tante altre qualità che scoprirai molto presto».
«Non ne dubito», rispose sarcastico Aleksej, cercando di mantenere un contegno imperturbabile per dimostrarle che non aveva paura, mentre con lo sguardo incollato alla strada ripeteva tra sé e sé «fottiti tu e la tua Porche».
Si allontanarono dal centro di Mosca e si diressero verso l’aperta campagna. Dopo alcune ore di viaggio l’auto imboccò una strada sterrata. Quindi percorsero ancora pochi chilometri ad andatura più lenta finché giunsero nei pressi di un enorme portone di ferro battuto, a due ante, di colore verde scuro. Dall’esterno non si riusciva a vedere granché perché la vista era impedita da un poderoso muro di cinta, sormontato da filo spinato e telecamere di sicurezza. Al cancello furono fermati da due uomini in borghese armati di kalashnikov. Ordinarono ad entrambi di abbassare i finestrini dell’auto e chiesero i loro documenti.