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Solo Per Uno Schiavo
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Solo Per Uno Schiavo

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Solo Per Uno Schiavo
Svyatoslav Albireo

Storia di un amore tra due uomini, contornato da sadomaso e fantascienza

A Firokami, la Città-Stato di Diamante, non vige certo la parità.

La Legge Della Giungla domina le vite dei suoi abitanti.

Ricchi e Poveri, Corifei e Schiavi. Così è, così è sempre stato, così sempre sarà.

Riuscirà l’amore tra due reietti a cambiare lo Status Quo?

Translator: Magda Pala

Svjatoslav Albireo

Solo

per

Uno

Schiavo

Il Sogno Di Firokami

Traduzione, Editing e Adattamento

di

MAGDA PALA

@AlbireoMKG

CAPITOLO UNO

“Dove?” chiese, autoritaria, una donna dai capelli scuri.

A una prima occhiata, sembrava avere venticinque anni. In realtà, era molto -molto-più vecchia. Elegante e all’ultima moda, Aletta era la proprietaria di un hotel. Uno con un nome molto originale, per un albergo. Astoria. Chiaramente, una reputazione coi controcazzi la precedeva ovunque andasse.

Accanto a lei, un uomo. Alto, pallido, magrissimo. Il suo essere completamente vestito di nero lo faceva apparire ancora più macilento. Le indicò qualcosa, con un cenno del capo.

I due erano sul Ponte Principale del transatlantico Dream e osservavano, annoiati, la folla che si abbrustoliva al Sole.

Il Mare, una distesa di seta azzurra.

La crociera aveva radunato personaggi di ogni tipo. Il fattore VIP era rappresentato da una ricca compagnia di sadici -ufficialmente in incognito, ma neanche tanto- che avevano deciso di passare le vacanze a caccia di nuovi Schiavi da torturare. Ovviamente, quei poveracci ancora non sapevano di esserlo -sia Schiavi che poveracci- ma dettagli.

La coppia di osservatori apparteneva alla borghesia di Firokami, la Città-Stato di Diamante. Considerata troppo violenta per il resto del Mondo, era anche troppo influente per poterla boicottare. Tale potenza era stata creata molto tempo prima, quando il suo Governo aveva raccolto tutti i reietti del Globo -compresi i mutanti- all’interno delle sue mura. Coloro i quali erano stanchi dei vari regimi mondiali erano più che benvenuti.

Poi, fu come se Lei -la Città- prendesse vita.

Accadde tutto dopo che si separò dal continente d’origine.

Il Governo dell’epoca non voleva certo abbandonare una fonte di ricchezza e risorse. Ma i modi amichevoli non funzionarono e l’ostilità era fuori discussione. Era diventata troppo forte, nessuno sarebbe sopravvissuto a un eventuale attacco. In pochi decenni, Firokami -in maniera del tutto autonoma e razionale- si preparò alla guerra. Religione contro Scienza. Nemmeno a dirlo, Lei sostenne la Scienza. E divenne imbattibile. Campi di forza, guerrieri geneticamente modificati, armi psicotrope, licantropi, vampiri. Tutto ciò che di più fantascientifico si potesse immaginare, una contraddizione dietra l’altra. Non c’era modo di batterlo, quell’esercito. Il Sindaco di allora, Alex Alex -o meglio, Alex²- non accettò alcun compromesso. Dopo la scontata vittoria, nessuno poteva più competere con Firokami. Lei stessa non attaccò o invase nessuno. Non lo avrebbe mai più fatto. Si limitò a prosperare, recuperare le terre perdute durante l’Anschluss e diventare completamente autosufficiente.

La Scienza, nel frattempo, si perfezionò ulteriormente.

Lavorare Per Prosperaredella Citta, il motto della Metropoli. Con tale atteggiamento, fu facile attirare nuovi Firokamiani. Ci si trasferiva e si lavorava per il bene comune. La politica di immigrazione più semplice e libera dell’universo.

Si trattava, però, della Città più costosa al Mondo. Non bastava essere miliardari, per potersi permettere di viverci. Il che è tutto dire. La valuta comune non era semplice moneta. Si trattava di Lingotti, ottenuti dal Diamante Dorato tipico della zona.

Non esisteva debito pubblico.

Non si commerciava con l’estero.

Non si dipendeva da nessuno.

Non c’era parità.

Non c’erano diritti.

Lì, la Legge Della Giungla -scusa preferita da tutti i Capitalisti- era Vangelo.

I meno fortunati diventavano Schiavi. Il giro d’affari che ci gravitava attorno era immenso. Soldi duramente guadagnati col sudore della fonte finivano tra le cosce e le labbra degli oppressi.

La Società prevedeva una gerarchia ben precisa. Era divisa in Padroni, Schiavi e Corifei. Questi ultimi erano baciati dalla Fortuna. Letteralmente. La Città si ergeva sulle loro spalle. Tutte le loro proprietà appartenevano alla Capitale. Lei, in cambio, li sosteneva e proteggeva. Qualsiasi cosa potesse accadere, non sarebbero mai e poi mai diventati Schiavi. Inoltre, il Giogo era totalmente volontario. Per quanto l’ultima spiaggia prima dell’accattonaggio possa essere considerata volontaria.Ultronei, questo il loro nome ufficiale. Ma quasi mai veniva usato.

La Legge era uguale per tutti. Qualche volta. Ma, in linea di massima, ci si schierava coi Padroni. A meno che qualcuno di loro non prendesse le parti dello Schiavo sotto accusa. Ma si trattava sempre di Padroni particolarmente potenti. Nessuno voleva correre il rischio di ribaltare lo Status Quo, ovviamente.

I Corifei erano ciò che rendeva la Città viva. Ognuno di loro possedeva una linea telefonica speciale, dove chiunque poteva chiamare e lamentarsi all’infinito. Un Servizio Clienti, in pratica. Erano obbligati a prendere atto di ciascuna lamentela e risolverla.Ma non prestavano la minima attenzione alla classe media e bassa, eccetto che in presenza di uno scontro di interessi.

A questo pensava Aletta, mentre socchiudeva i suoi occhietti color fango che lei amava definire nocciola. Continuava a guardare la folla. O meglio, la stava giudicando.

“Oh,” sospirò, afferrando la ringhiera. “Tutto chiaro.”

Si voltò e, di scatto, tirò un guinzaglio. A esso, legato, un esemplare di eccezionale bellezza. Pelle ambrata, lunghi capelli neri, occhi azzurri, alto, nobile, magnetico. Sulla spalla destra, un tatuaggio. Due lettere, A e D. Completamente nudo, indossava solo dei sandali di pelle. Delle cinghie di cuoio incatenavano il corpo del malcapitato e, al contempo, sottolineavano la sua condizione di sottomissione. Ma tutto si poteva dire, di quello Schiavo, tranne che fosse sottomesso. Sembrava un incrocio tra un predatore in gabbia, pronto a sbranare chiunque si avvicinasse alle sbarre della sua prigione, e un Dio Pagano. Una sorta di Bronzo Di Riace infernale, pericoloso e seducente.

Ai Firokamiani DOC era permesso portarsi in giro i loro Schiavi senza abiti addosso. Non c’era Violazione Della Pubblica Morale o Atto Osceno In Luogo Pubblico che tenesse, per il privilegiato 1%.

Il Mondo intero abbassava la testa -e, spesso ma non così volentieri, le mutande- di fronte alle assurdità di Firokami. Non si limitavano a essere una potenza. Erano La Potenza fattasi carne. Commerciare con loro significava avere un PIL del ventordici per cento. Quindi, a un certo punto, erano anche un po’ sticazzi dei Diritti Civili e delle minoranze oltraggiate.

E il ragionamento non faceva una singola piega.

Firokami aveva talmente la faccia come il culo da dichiarare che, finché ci sarebbero state donne lapidate per adulterio e ragazzini neri uccisi dalle forze dell’ordine, nessuno avrebbe potuto dire mezza virgola sul trattamento riservato ai suoi Schiavi.

Inoltre, tali Schiavi non venivano trattenuti contro la propria volontà. Una volta abbandonato il Paese, non era prevista alcuna condanna o persecuzione. Nemmeno dopo richieste di Asilo Politico a stati esteri.

Le regolamentazioni imposte dalla Città valevano solo al suo interno. Bello, vero? E, invece, no. Gli Schiavi sapevano bene, quanto tutto ciò fosse ipocrita. Nessun’altra nazione aveva bisogno di loro, nessuno poteva accoglierli. Inoltre, la vita -là fuori- sarebbe stata ancora più insopportabile. Di conseguenza, Firokami non poteva fare altro che arricchirsi. Vita natural durante.

“Da bravo, fai il tuo dovere,” sussurrò Aletta, mentre allargava le gambe.

Lo Schiavo si inginocchiò davanti alla sua Padrona, senza lasciar trapelare alcuna emozione. Le sfiorò i fianchi con la punta delle dita. Poi, seppellì il viso tra quelle cosce spalancate. E Aletta gridò. Cazzo, se gridò. Quell’Adone ci sapeva proprio fare. Come poteva non essere così? Dopotutto, aveva ben trent’anni di esperienza. Una brillante carriera, iniziata quando aveva otto anni. È la pratica che rende perfetti, n’est-ce pas?

Il socio della donna, annoiato, si accese una sigaretta. Poi, girò i tacchi e se ne andò.

“Ehi! Dov’è che vai, Stine?” gemette Aletta, in preda ai piaceri del cunnilingus ma sempre sul chi-va-là.

“Se permetti, pure io c’ho voglia di un pompino,” rispose l’altro, seccato. “Mica posso restare a guardare te che ti diverti.” E si diresse al Ponte Inferiore.

“Ma il divertimento comincia questa sera,” sussurrò lei, prima di arrendersi alle coccole del suo Animale Da Compagnia.

Andava bene. Stine era perfettamente in grado di badare a se stesso. Aletta non avrebbe avuto nulla di cui preoccuparsi, se non venire. Poi, venire di nuovo. E, magari, venire ancora.

***

L'Oceano e il Sole sembravano respirare. Sembrava quasi stessero per dire qualcosa di davvero importante. Il Ponte Inferiore era il più vicino e Ad era in ascolto. Scrutava l’orizzonte coi suoi occhi color ciliegia. Non voleva perdersi una sola parola, se avessero iniziato davvero a parlare. Ma non lo fecero. O, forse, non riusciva a sentirli. Con tutta quella marmaglia che mormorava attorno a lui, come avrebbe potuto? Si stava annoiando.

“È scomoda, quella sdraio?” chiese, d’improvviso, un uomo.

“Non scomoda come quei vestiti neri che c’hai addosso,” rispose il ragazzo, sgarbato.

Stine sollevò un sopracciglio. Ma sorrise e gli si sedette affianco. Sulla stessa sedia.

“Adesso sì che è scomoda,” commentò Ad, mentre sollevava le gambe e le poggiava sulle ginocchia del nuovo arrivato.

E, all’improvviso, l'Oceano e il Sole cominciarono a gridare. Urla disperate. Ad si raddrizzò, di colpo.

“Stai mica aspettando qualcuno?”

Il ragazzo avrebbe voluto rispondere a modo suo. Ma cambiò idea e soppesò l’uomo con lo sguardo.

“Cos’è che vuoi?” gli chiese, poi, come se fosse appena arrivato.

“Niente,” fu la risposta. Poi, aggiunse, “Non hai paura a parlare così a degli sconosciuti? Non puoi mai sapere chi ti possa capitare di fronte.” Si sporse e lo fissò. “E come potrebbe reagire alla tua maleducazione.”

Ad ghignò. Lo divertivano sempre, i boomers che cercavano di intimidirlo.

“Un lupo non si preoccupa della reazione di una pecora,” rispose il giovane, acido come poche cose nella vita.

Stine sorrise. Immaginava come quelle labbra avrebbero gridato, come quegli occhi cremisi avrebbero pianto, come quella pelle si sarebbe arrossata, sotto le sue cure. E ridacchiò.

“Stasera, avvicinati al Quarto Tavolo. Vedrai che ne varrà la pena.” E se ne andò, non prima di aver buttato il mozzicone della sua sigaretta nel drink del ragazzo. Il cui primo impulso fu di tirarlo dietro a quel Vecchiaccio-Di-Merda-Che-Arriva-Lì-E-Pensa-Di-Fare-Come-Gli-Pare-Quando-Gli-Pare. Ma si bloccò, quando vide i muscoli di schiena e glutei dello sconosciuto. Un finto magro, poco ma sicuro. Rimase a guardarlo, mentre si allontanava. Dopo di che, si alzò. I battibecchi tra Monsieur Oceano e Mr. Sole non gli importavano più. Forse, non gli erano mai importati.

***

Aletta era seduta a un tavolo. Un venticello fresco le accarezzava il viso, ancora accaldato dagli orgasmi. Ma quelle sensazioni piacevoli non poterono nulla, contro la sua agitazione. Stine era sparito. Letteralmente. In più, tutti -tutti-non levavano gli occhi di dosso dal suo Schiavo. Il suo Schiavo! Se lo stavano letteralmente mangiando con gli occhi. Ma che filibustieri! Poi, lo vide. Stine. La salutò con un cenno del capo, ma non si avvicinò e proseguì oltre.

L’uomo era un gossipparo di prim’ordine, ma -in quel momento- la sua voglia di scopare era più forte della voglia di pettegolezzi. Non abbordò nessuno, però. Quegli Schiavi erano tutti così banali e insipidi. Nemmeno tutti assieme avrebbero potuto soddisfare ciò che quel bellissimo giovane gli aveva scatenato. Meglio solo, quindi, che male accompagnato. Non voleva certo passare per disperato.

“Ma che ca- Al! Vai là e scopri cos’è successo! E, soprattutto, quando è successo! Corri!” esclamò Aletta, spingendo lo Schiavo lontano da sé. Quello si alzò, abituato a ben di peggio, e si diresse verso l’obbiettivo.

Due falcate e lo raggiunse, proprio prima che entrasse nella sua cabina.

“Padron Stine,” disse. “La mia Signora vuole sapere cosa è successo. E, soprattutto, quando.”

“Cosa e quando?!” Stine corrugò le sopracciglia. Aletta diventava ogni giorno più assurda. Poi, guardò il manzo che aveva di fronte. “Entra che ti racconto.”

E Al obbedì. Se non l’avesse fatto, sarebbe stato punito dal Padrone.

Certo, Aletta lo avrebbe punito per aver acconsentito che un altro lo toccasse. E perché la stava facendo aspettare.

Poteva quasi vederla, dove l’aveva lasciata, che programmava il dopo-cena al Tavolo Quattro. Unghie affilate, espressione corrucciata, mentre preparava la punizione esemplare per il suo essere lento e insolente.

In un modo e nell’altro, lo Schiavo ne avrebbe pagato le conseguenze.

Non poteva vincere.

Ma non era sicuro che gli importasse.

CAPITOLO DUE

Un bellissimo ragazzo, poco più che adolescente, passò accanto ad Aletta. Lei lo vide, sorrise, allungò una gamba e gli fece lo sgambetto.

Lui bestemmiò che manco uno scaricatore di porto. Sollevò lo sguardo e la fissò. Quegli occhi color ciliegia, se avessero potuto, l’avrebbero uccisa. Aprì la bocca e le disse, “Scusate tanto,” col tono che nessuno mai assocerebbe a delle scuse.

Aletta rimase a bocca aperta. Non era proprio la reazione che si aspettava. Ma non si perse d’animo e gli offrì il suo sorriso più smagliante. Poi, senza guardarlo, si sistemò meglio sulla sua poltrona.

“Siediti, ti offro un caffè,” offrì, soave, sempre senza guardarlo. Di proposito.

La risposta non arrivò. Anche se quel silenzio fu molto eloquente.

Finalmente, si voltò a guardare il giovane. A quel punto, si aspettava di trovarlo in ginocchio. Terrorizzato per aver osato urtare una dei Padroni, gli occhioni belli pieni di lacrime. Semplicemente perfetto.

Ma lui non c’era.

Scomparso. Puf. Come se non fosse mai stato lì.

Si rese conto, in pratica, che aveva parlato da sola. Come un’idiota qualsiasi. La donna arrossì di umiliazione. Quello Schiavo presuntuoso aveva osato non implorare pietà. Le odiava, quelle puttane boriose. Se la facevano coi Corifei e non valevano assolutamente nulla, se non fosse stato per la loro bellezza. Si trovava sulla nave per incontrare Alsheh Mareh, la Lady Gaga di Firokami. Sicuro come la Morte che era quella la ragione. E se ne sarebbe pentito, eccome, per tutta la vita.

Aletta ghignò, pensando agli altri prima di lui. Tutti caduti tra le grinfie di Stine e mai più risollevatisi. Sarebbe successo anche a quel San Sebastiano. Sarebbe stata proprio lei a fare in modo che accadesse.

***

I Padroni adoravano sfondare culi. Non si curavano di prepararli prima. Era -quasi- voluto. E Stine non faceva differenza. Anzi, era maledettamente violento. Più degli altri. La sua era una missione. Doveva, per forza, dimostrare costantemente che lui era un Padrone e loro degli Schiavi. Nel caso di Al, una Bestia. Quindi, ancora più inferiore.

“Allora, troia, ti piace?” gli sussurrò all’orecchio.

“Sì, Padrone,” rispose, come d’abitudine, lo Schiavo. Mancava solo sbadigliasse.