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Una Bellissima Storia Sbagliata
Margherita Guglielmino
Il romanzo d'esordio di una scrittrice di talento.
Luisa è una donna che all'apparenza ha tutto: bella, intelligente, di buona famiglia, aiuto primario a soli 35 anni, cos'altro chiedere alla vita? Eppure lei si sente terribilmente sbagliata! Durante una missione umanitaria in Sierra Leone, conosce Giorgio un affascinante medico, per cui perde la testa, dimenticando che lui è un uomo sposato con una famosa creatrice di gioielli non vedente. Una notte i guerriglieri arrivano in un villaggio vicino l'ospedale da campo, distruggendo e incendiando tutto ciò che incontrano. Tra il fuoco e la desolazione si fa strada una donna con una bambina in braccio, salvare quella piccola vita che la madre morente le affida, darà inizio ad una catena di eventi che la cambierà per sempre, trascinandola verso un viaggio introspettivo per domare i suoi demoni, tra un passato familiare nebuloso e dal quale non vuole più scappare, ed un futuro incerto, divisa tra un amore impossibile e la paura di aprirsi ad una nuova relazione.
Translator: Sara Elisa Frison
Margherita Guglielmino
Una bellissima storia sbagliata
romanzo
Pubblicato da Tektime
© 2021 - Margherita Guglielmino
Una bellissima storia sbagliata
Fotocomposizione: relegosplende communication
https://relegosplendecommunication.tumblr.com/
In copertina Giulia Maffei fotografata da Lorenzo Mascali
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata
Ringraziamenti
Ho sempre sognato di scrivere un libro e nel mio immaginario i ringraziamenti non stavano alla fine del libro, ma all’inizio, proprio per enfatizzare l’importanza che queste persone hanno avuto nella mia vita e nella genesi di questo romanzo.
I miei ringraziamenti saranno rigorosamente in ordine temporale e non d’importanza.
Grazie a mio nonno Mimmo, integerrimo uomo del sud, che faceva il bidello nel Circolo didattico che frequentavo e che il sabato mattina, quando le lezioni erano sospese mi portava con lui a scuola. Mentre lavorava io mi rintanavo nella biblioteca della scuola, annusando l’odore della carta stampata su quei classici senza tempo. Da lì credo sia nata la mia passione per la lettura.
Grazie alla professoressa Patrizia Grasso, che ha creduto in quella ragazzina tredicenne, infondendole la fiducia necessaria per emergere in un contesto difficile e grazie per non aver mai dimenticato quella ragazzina che ha ricercato quasi 30 anni dopo su Facebook.
Grazie a mia cugina Valentina, che nel momento più difficile della mia vita, mi ha aperto le porte di casa sua, proprio dalla finestra del suo terrazzo, la notte da “sira e 3” mentre vedevo i fuochi e le luci della mia Catania in festa, ho avuto l’ispirazione per scrivere.
La scrittura si è impossessata di me!
Grazie alla mia amica Anna, la mia prima lettrice, che mi ha esortato a finire ciò che avevo iniziato tre anni prima e che avevo lasciato in sospeso.
Grazie al mio amico Duilio, che oltre al punto di vista fiscale mi ha dato anche quello di un lettore maschile.
Grazie a Cristina che leggendo un mio post su Facebook, mi scrive Marghe, scrivi troppo bene, dovresti scrivere un libro! E quando le ho risposto che in realtà avevo iniziato a produrre qualcosa, mi dice bene allora poi ti presento mio cugino editore… e così ha fatto!
Grazie ad A. che nel difficile momento della quarantena mi ha fatto tornare la voglia di scrivere. Grazie a mia zia Elivia, in primis per essere il mio DNA segreto e poi per avermi suggerito il titolo.
Grazie a Tizy e Bea, che hanno letto il romanzo work in progress, incitandomi tutte le sere a finirlo, perché avevano voglia di vedere come andava a finire.
Grazie a mia figlia Valeria, la prima metà del mio cuore, suggeritrice di libri e film e perfetta correttrice di bozze!
Grazie a mia figlia Giulia, l’altra metà del mio cuore, nonché bellissima ragazza copertina.
Ed infine grazie al mio editore Antonello La Piana, che ha realizzato il mio sogno!
PS: grazie a tutti voi che mi state leggendo o mi avete letta e che mi permettete di continuare a sognare.
Margherita
1
Fuori dalla finestra iniziava ad albeggiare, un misto di nebbia copriva il nascere rossastro del sole, in quella tiepida mattinata autunnale. Bologna era così, un misto di contraddizioni, cultura e divertimento, sacro e profano, la dotta e la grassa, forse fu proprio per le sue due anime che Luisa la scelse come sua nuova dimora, perché anche lei in fondo era un po’ così, in lei conviveva un dualismo interiore fin dall’infanzia.
Lei, figlia modello di un professore universitario, appartenente alla ricca borghesia romana, sempre composta e perfetta covava dentro un fuoco che veniva puntualmente spento dalla paura di perdere tutto, soprattutto il gelido amore di sua madre; solo una volta aveva permesso a quel fuoco di bruciarle nelle vene ed era andato tutto in fumo. Così decise di lasciarsi tutto alle spalle e trasferirsi ovunque purché lontano da Giorgio e da quella insana passione.
La proposta di Anna la sua amica di sempre cadde a pennello, anni prima aveva vinto un concorso all’ospedale Maggiore di Bologna ed insieme a Fabrizio, il grande amore della sua vita, si era trasferita nella città delle torri degli asinelli. Ora si era liberato un posto in chirurgia pediatrica ed era stato facile per la stimata dottoressa Luisa Martinelli ottenerlo.
Mentre toglieva la mascherina verde e sorseggiava un caffè guardava le luci pulsanti della città lasciare il posto ai colori dell’alba.
Un'altra notte era passata, un altro bimbo era salvo e a lei andava bene così. La sua vita era tutta li, nel tragitto che faceva tutti i giorni in bicicletta da casa all’ospedale e viceversa. Quel monolocale vicino Piazza Grande era il suo rifugio. Piccolo ma efficiente, un angolo cottura con il lavello sotto il davanzale della finestra, che si affacciava su una stradina piena di negozi, panetterie, ristoranti, bar, pub, sembrava che a Bologna non si facesse altro che mangiare. Un letto a baldacchino bianco con copriletto lilla pieno di glicini al centro del loft e montagne di libri di ogni genere che dal parquet arrivavano al soffitto.
C'erano più libri che vestiti, d'altronde a differenza di Anna che era patita di moda, sfilate e accessori a Luisa bastavano i suoi immancabili jeans a zampa e i suoi maglioni extralarge unica tinta… e poi Theo, il suo inseparabile gatto nero, vero padrone di casa. Assorta nei suoi pensieri, Luisa non vide il riflesso di Mariarosa, la caposala del reparto di pediatria, che lentamente le si era avvicinata e quando le poggiò una mano sulla spalla, sobbalzò. Poi riconobbe la sua inconfondibile voce con quell’accento emiliano romagnolo che le ricordava le atmosfere felliniane:
- Dottoressa... nessuno sa meglio di lei...
- Che il caffè a digiuno… provoca buchi allo stomaco -completarono la frase insieme come sempre.
- Hai ragione Mariarosa, ma dopo una notte del genere con un intervento di sostituzione della valvola mitrale ad un bimbo così piccolo, un caffè forte ci vuole proprio!
- Mangi almeno qualcosa. Le prendo una brioches alla macchinetta?
- No grazie cara, mi cambio e vado a casa, nel tragitto passo da Nanni e faccio colazione, promesso.
Le sorrise e andò nello spogliatoio.
Era stata accolta bene a Bologna, era lì da quasi due anni ed era rispettata da tutti, certo ancora ogni tanto quando passava nel corridoio qualcuno bisbigliava e storceva il naso sulla fulminea carriera della dottoressa Martinelli.
A 35 anni aiuto del famoso prof Branciforte, chirurgo di fama mondiale al Bambin Gesù di Roma ed ora vice primario al maggiore di Bologna, certo il suo cognome pesava come un macigno per lei così schiva e riservata, ma era abituata a conviverci da sempre.
Prima era stata per anni la figlia del Rettore universitario e ora anche la nipote del segretario del partito di maggioranza al governo, nonché Presidente del consiglio. Ma a Luisa quel genere di politica fatta di bustarelle e raccomandazioni non era mai interessata.
Fu proprio per questo che, tre anni prima, quando suo padre aveva spinto per quel posto al Bambin Gesù, lei era fuggita in Africa con medici senza frontiere.
Già l’Africa, la Sierra Leone, il fuoco, la guerra civile, Giorgio e Asmait. Scacciò velocemente i ricordi che bruciavano come un marchio infuocato sulla pelle, si cambiò rapidamente e uscì dall’ospedale.
Erano più o meno le 7 del mattino, la sua bici era legata con catena e lucchetto ad un palo della luce, accanto alle fuoriserie dei colleghi, un vero paradosso, lei la raccomandata nipote del Premier girava per la città in bicicletta e i suoi colleghi comunisti poggiavano il culo su Porsche e BMW. E già, non esistevano più i comunisti di una volta pensava, come non esisteva più distinzione tra destra e sinistra. Con questo pensiero fece un timido sorriso e iniziò a pedalare. L’aria era tersa, ottobre le era sempre piaciuto, non era ancora pieno autunno e i viali alberati colmi di foglie arancioni le davano tanta pace, quell’arancio le ricordava i tramonti africani, dietro quelle dune l’orizzonte scompariva a perdita d'occhio e il silenzio l’avvolgeva.
Arrivò davanti all’ edicola di Ivan.
- Buongiorno bella dottoressa il suo malloppo culturale è già pronto.
- Grazie Ivan sei unico. C'è tutto?
- Ma certo… il resto del Carlino, la Repubblica e il Corriere. Poi un giorno mi dirà come fa a leggere tutto nel poco tempo che ha.
- Sai Ivan col tempo ho imparato che la verità è soggettiva e spesso le verità dei giornali sono bugie camuffate bene, per questo voglio avere un quadro chiaro, leggendo più fonti posso farmi un'idea obiettiva.
- Sarà come dice lei, ma con tutto il rispetto siamo stanchi di leggere in prima pagine le avventure galanti di suo zio, distolgono il popolo dai problemi veri del nostro paese.
Luisa sorrise a mezza bocca, Ivan aveva ragione, non approvava nulla di ciò che aveva fatto lo zio negli ultimi anni, né il programma politico né il comportamento privato, non l’avrebbe mai votato come figura politica ma in privato era il suo zione, quello che le faceva fare il cavalluccio da piccola e che le aveva insegnato le costellazioni. Il potere l’aveva logorato e corrotto, aveva perso il contatto con la realtà, si sentiva onnipotente, lui che essendo il fratello minore era cresciuto all’ombra del fratello maggiore il rettore Giovanni Martinelli, sposato con Bianca De Nardo, figlia di un armatore.
Che fortuna nascere in quella famiglia, Luisa se l’era sentito ripetere centinaia di volte, ma solo lei sapeva che la famiglia del “mulino bianco” non esisteva e che quel guscio era vuoto. Una volta da adolescente aveva letto "va dove ti porta il cuore" di Susanna Tamaro ed era rimasta molto colpita dal sillogismo che la scrittrice aveva fatto tra la protagonista e una pecorella del presepe che ogni anno le suore allestivano nell’atrio del collegio.
Ogni alunna era una pecorella e a seconda delle sue azioni poteva avvicinarsi alla grotta della natività o al precipizio. Luisa, esattamente come la protagonista della Tamaro, qualsiasi cosa facesse si sentiva sempre in bilico ad un passo dal baratro. Aveva amato così tanto quel romanzo e quel brano, che l’aveva letto, sottolineato e riletto centinaia di volte e anche ora che era adulta e la sua pecorella si era sfracellata al suolo, quel libro era intoccabile sul suo comodino.
La sua infanzia non era stata affatto felice come poteva apparire. Chiusa in una gabbia dorata, unica compagnia i suoi amati libri.
Suo padre sempre preso dalle apparenze e timorato di Dio, a detta di tutti era un esimio docente ma un padre assente che pretendeva sempre il massimo da Luisa.
Sua madre invece anaffettiva e ipocondriaca era sempre malata o credeva di esserlo, forse inconsciamente Luisa era diventata medico per curare le malattie immaginarie della madre, da piccola glielo ripeteva sempre: "mammina da grande ti curerò io".
Sua madre era così invisibile, evanescente perfino al tatto, mai un bacio, una carezza, una confidenza madre figlia. Per fortuna in quella grande casa sulla via Appia c'era Francesca, la sua tata, che le aveva insegnato tutto ciò che Luisa sapeva sui sentimenti, forse non molto visto il disastro amoroso che era stata la sua vita fino ad allora, ma almeno le aveva dato il calore di un bacio e di una buona cioccolata calda nelle lunghe sere invernali.
Presi i quotidiani si diresse da Nanni, entrò e subito fu investita da quell’odore di burro e vaniglia che solo i cornetti caldi (perché per lei romana quelli erano cornetti, ma al nord diventano tutte brioches ) sanno fare.
Prese il solito caffè schiumato in vetro con cannella e un cornetto vuoto. Era stanca, le notti cominciavano a pesare e nella sua posizione poteva anche rifiutarsi di farle ma in Sierra Leone aveva capito il vero significato del giuramento di Ippocrate. Pagò e uscì dalla caffetteria, ormai il brusio della città la circondava, iniziò a pedalare, arrivò in via D’Azeglio, sotto il balcone della casa che era stata di Lucio Dalla e subito nella sua mente le note di "Anna e Marco" si fecero strada, svoltò a destra, altri settecento metri e finalmente sarebbe giunta a casa.
2
Lasciò la bici davanti al portone e salì le scale a chiocciola che la conducevano nel suo piccolo regno. Aprì la porta e respirò quell’odore di agrumi sprigionato dalle tante candele sparse per casa. Theo si era impossessato del suo letto e sarebbe stata dura farlo scendere ma aveva già deciso di farsi una doccia perciò quel pigrone di un gatto poteva anche dormire un altro po’.
Si tolse i vestiti e li gettò nel cesto dei panni sporchi, rimase con gli slip e il reggiseno e mentre li sfilava passò davanti lo specchio del bagno, aveva ancora un bel fisico nonostante i suoi 37 anni, pensò a quanti uomini sarebbero stati ancora attratti da lei e all’astinenza sessuale a cui si era sottoposta. Erano ormai più di due anni che un uomo non la sfiorava e la possedeva, l’ ultima volta era stata quella maledetta notte dell’incidente di Asmait, la notte che aveva cambiato la sua vita. Con quel pensiero aprì l’acqua entrò nella doccia e mentre era avvolta in una nuvola di vapore iniziò a ricordare.
- Perché no, papà? Ma ti rendi conto del perché non voglio quell’incarico? Sono stanca di essere la figlia di..., voglio costruire qualcosa con le mie forze perciò mi dispiace tanto ma hai scomodato gli amici tuoi per nulla, io al Bambin Gesù non ci vado, anzi sappi che la settimana prossima parto per la Sierra Leone con medici senza frontiere, il tempo di ottenere i visti e di fare le vaccinazioni necessarie.
- Sei la solita ingrata anticonformista, quando la smetterai di sputare nel piatto in cui mangi? Farai venire un infarto a tua madre uno di questi giorni.
- Tanto la mamma ipocondriaca com’è un infarto se lo farà venire da sola, mi sembra un personaggio di Verdone.
Comunque io ho già deciso di partire, ma tranquillo papà non ti farò sfigurare davanti a nessuno, ho chiesto un aspettativa temporanea in ospedale. E ora scusami ma devo iniziare a preparare i bagagli.
È così una settimana dopo sorvolava le dune dei deserti con i suoi pantaloni color cachi e quella camicia di lino che facevano tanto "la mia Africa".
Arrivata in Sierra Leone, durante il tragitto che la portò dall’aeroporto al campo di medici senza frontiere, Luisa capì subito la drammaticità di quei luoghi.
Vedeva capanne bruciate, bambini mal nutriti sommersi da mosche e carcasse di animali ad ogni angolo. Per un attimo si chiese se era ciò che voleva ma soprattutto se era in grado di farcela, di essere utile a quella gente che non aveva nulla o se il suo era stato solo un moto di ribellione di una ragazza viziata e capricciosa. Respirò a fondo e si fece coraggio. La jeep si fermò e fu invitata a scendere. Fu accolta velocemente dai colleghi che le indicarono le procedure, il suo accampamento e la invitarono a seguirli per conoscere colui che era stato l’artefice di quella spedizione in un paese così martoriato dalla guerra civile, il dottor Giorgio Di Pietro.
Luisa lo conosceva di fama, aveva dato un esame universitario basandosi su un testo scritto da quel medico e ricordò lo stupore che ebbe appena aprì la copertina del libro. Si aspettava uno di quei luminari settantenni, invece in quella foto era ritratto un quarantenne molto affascinante ed abbronzato sulla sua barca a vela.
Biondo con dei profondi occhi azzurri, Luisa pensò... cavolo bello e intelligente un connubio molto raro.
Ed ora a qualche anno di distanza da quel pensiero eccolo davanti a lei, il dottor Di Pietro.
Sempre abbronzato, qualche ruga in più e qualche capello biondo in meno era ancora molto affascinante nei suoi 47 anni, di cui gli ultimi tre vissuti in zone martoriate del nostro pianeta.
Aveva lasciato una cattedra universitaria e un posto di rilievo al Gaslini di Genova per buttarsi in prima linea dove c'era veramente bisogno di tutto: di braccia, gambe, di cuore, anima e cervello perché lì ogni gesto ogni mossa doveva essere pensata, era una questione di vita o di morte.
- Accomodati, disse sorridendo.
Un sorriso aperto da togliere il fiato e mentre lui le sorrideva lei stranamente si sentiva sprofondare sotto la bianca camicia.
- Prima regola del campo, qui ci si dà tutti del tu, quindi accomodati Luisa, io sono Giorgio - le disse porgendole la mano che afferrò con una stretta vigorosa - e spiegami che diavolo ci fai all’inferno.
Luisa non si aspettava quell’accoglienza e quelle parole, e ora cosa avrebbe detto? Sono qui perché paparino mi ha raccomandato per un posto di prestigio ma io sono una ricca e viziata ragazza che gioca a fare l’attivista dei centri sociali? No certamente non poteva dire quello, respirò e prese fiato.
- Non so perché sono qui, ma ci sono e sono pronta a mettermi a disposizione per tutto ciò di cui avete bisogno, dimmi cosa devo fare e lo farò.
Giorgio sorrise e lei si sentì improvvisamente nuda sotto quello sguardo e iniziò a sudare freddo.
- Bene, sia ben chiaro che qui non si gioca quindi se sei qui per trovare te stessa, per scappare da una delusione amorosa o per fare un dispetto alla tua famiglia, hai sbagliato luogo, gira i tacchi e tornatene in Italia.
Se, invece sei qui perché hai ben presente che questa non è una fiction di quart’ordine e questa gente muore ogni giorno per una guerra che arricchisce sempre più i signori del potere, mentre noi non abbiamo a volte neanche i mezzi per curarli e vuoi realmente renderti utile, sbracciati le maniche, va nella tenda che ti è stata assegnata e tra 10 minuti inizia il turno, nella tendopoli che utilizziamo come ospedale da campo. Ma attenta non ti darò tregua e respiro, chi viene qui deve sapere ciò che l’aspetta e i miei occhi vigileranno sempre su di te. Buona giornata Luisa, si alzò e uscì.
Lei impietrita restò al centro della stanza, sentiva la rabbia montarle dentro.
Come si permetteva quell’arrogante, chi si credeva di essere, lei era lì per… per… fuggire da suo padre e dagli schemi prefissati dove l’aveva rinchiusa.
Touchè quell’arrogante aveva visto giusto. Stava a lei dimostrargli che si sbagliava e fargli cambiare idea con il lavoro sul campo.
I tre mesi successivi furono terribili, turni massacranti, infezioni, zanzare, caldo ustionante ma soprattutto miseria e morte. Samir fu il primo bambino a spirargli tra le braccia, era arrivato al campo in condizioni disperate, una mina antiuomo gli aveva fatto saltare gli arti inferiori, Luisa aveva fatto di tutto per salvarlo, aveva tentato l’impossibile, non l’aveva lasciato un attimo, per tre giorni e tre notti l’aveva vegliato ai piedi del letto e quando lui se n'era andato, Luisa aveva sentito per la prima volta il sapore salato delle sue lacrime in quella calda serata africana, era stato un attimo poi lo scirocco le avrebbe asciugate rapidamente. Mentre era lì davanti quel corpicino inerte sentì una voce.
-Vieni Luisa, non possiamo più fare nulla per lui e ammalarti non ti aiuterà e soprattutto non aiuterà tutti gli altri Samir che hanno bisogno di un bravo medico come te. Era la prima volta che le rivolgeva parole simili.
L’aveva chiamata bravo medico, lei si girò e tentò un mezzo sorriso. Grazie fu l’unica cosa che riuscì a dirgli.
- Devo andare in città a fare scorta di medicine, ti va di venire con me?
- Si, grazie!
- Se l'avessi scordato mi chiamo Giorgio e non grazie e allargò sul viso un sorriso che lo illuminò.
Anche Luisa sorrise e dopo cinque minuti erano insieme sulla jeep diretti a Freetown.
Durante il tragitto parlarono un po’delle loro vite o meglio Giorgio parlava, era lui l’avventuriero, aveva girato il mondo, conosciuto paesi e culture diverse ed era sposato da 6 anni con Sara, una creatrice di gioielli che viveva a Milano, non avevano figli perché lei dopo un intervento non poteva più averne.